CAPITOLO 4
Una cosa l’avevo capita, Emy era morta e non si sapeva come.
Ma la domanda era Perché?
Non credevo che la sua uccissione, sia stata occasionale. Forse ci poteva essere un collegamento, con le altre sparizioni. Indubbiamente c’era. Bastava trovare l’elemento che accomunava tutto e forse, una persona mi avrebbe dato una mano.
Dal mobiletto in corridoio, presi l’agenda con tutti i numeri di telefono. La sua copertina era vecchia di secoli, in pelle. La aprii. Una sfilza di numeri con i rispettivi cognomi si presentarono davanti a me. Cercai subito nell’elenco, sotto la lettera “O”, sfogliai velocemente le pagine.
Con il dito cercai il cognome che mi interessava.
“Un elenco meno lungo non esisteva?!”, dissi tra me.
Doveva essere vicino, avevo passato 16 cognomi, dove essere per forza fra gli ultimi.
Arrivai alla fine, passai gli ultimi quattro.
“Finalmente!!”, esclamai a gran voce. Era l’ultimo, di una lunga serie.
“O’Connor Denis”, la sola persona su cui potevo contare.
Composi il numero e attesi che rispondesse.
Denis O’Connor, un ragazzo di 19 anni: occhi color nocciola, capelli marroni e un umorismo che pochi avevono. Lavorava nella segheria della città, ma si occupava anche di altre; come ad esempio informazioni molto importanti, sapevo tutto di tutti. E lui di sicuro, sapeva benissimo delle informazioni, che mi interessavano.
Per la quarta volta suonò il telefono, solitamente rispondeva subito. Attesi ancora qualche istante.
“Pronto?!”, disse con un filo di voce che gli era rimasto.
“Ciao, Denis! Sono Katie”, c’era uno strano rumore di sottofondo.
“Ciao! Katie! Da quanto è che non ci sentiamo? Come stai?”. Era veramente entusiasta di sentirmi.
“Benissimo!”, volevo chiederlo al più presto, se no me ne sarei dimenticata subito.
“Ascolta, dove chiederti una cosa, che penso tu ne sia già a conoscenza”.
“Si, dimmi pure. Sono sempre disponibile. Di che cosa si tratta?”. Sapevo che lui sarebbe stato disposto ad ascoltarmi.
“Tu sai chi è morto oggi, vero? Ma penso che tu lo sappia già. Quindi volevo chiederti, se sapevi qualche dettaglio in più”. Sentii ancora quel rumore di sottofondo, assomigliava ad un ronzio di una zanzara in cerca di sangue per nutrirsi.
“Si, l’ho saputo”, lo disse con tale amarezza, che mi sentii triste. “E mi dispiace molto. Si, sono a conoscenza di alcuni dettagli, abbastanza importanti”.
“Ci scomettevo!”, questa era una buona notizia. Volevo sapere cosa era veramente accaduto.
“Quando e dove ci incontriamo”, mi venne da ridere. Mi sembra di essere protagonista di un film di spianaggio.
Sentii, dei passi provenienti dalla scale.
“Incontriamoci…”, gli chiusi la cornetta in faccia. Era arrivata mia madre. Appena chiuse la porta, il suo viso assunse un’espressione indecifrabile.
“Katie è stato qualcuno a casa?”, mia madre fiutava qualsiasi odore. Mentirle non era un’opzione.
“Si è stata qui Ilary”, non sapevo se informare anche lei. Di sicuro aveva notato che chiamavo Denis, quindi dedussi che lo sapeva.
“Ha chi hai telefonato?”.
Non risposi.
“Secondo me, hai telefonato a Denis O’Connor”, pronunciò nome e cognome con tale precisione, che nessun essere umano sarabbe stato capace. “Scommento che lo hai chiamato, per l’omicidio di Emy”. Ecco, a mia madre non si poteva proprio nascondere niente.
Non fiatai, sapave già la risposta.
Cambiò argomento. “Che cosa è venuta a fare, Ilary?”, pronunciò di nuovo con precisione il suo nome.
“Era venuta per darmi la notazia di Emy”, notò la torta. Sorrise.
“Tu hai telefonato a Denis, per sapere qualche dettaglio in più sulla sua uccissione. Per il semplice fatto che non si sa come è stata uccisa”, precisa e puntuale come sempre, a mia madre non sfuggiva proprio nulla.
Dovetti fare cenno di sì. Aveva fatto letteralmente centro.
Si stava avvicinnando alla torta, stava per per prendere il coltello. La anticipai di mezzo secondo e lo presi prima di lei.
“Guarda che sono perfettamete capace di servirmi da sola”, protestò.
Ritirai subito la mano e le cedetti il coltello, alle sue: morbide, calde e perfette mani.
Tagliò con assoluta precisione, la torta. Le diede un morso.
“Quindi, è morta Emy. Povera ragazza, non oso pensare a come si sentiranno i suoi genitori, specialmente suo padre”, anche lei come me era rimasta sconvolta.
Ed ecco, il mio pensiero ritornva su quella telefonata.
“Secondo te, la serie di sparzioni e l’uccisione di Emy, sono fatti che hanno un collegamento?”. La mia domanda era abbastanza logica.
Finì di mangiare.
Il suo sguardo si perse nel vuoto, riflettè. “A giudicare, dagli eventi: due sparizioni nell’arco di due settimane e un uccisione…”, lasciò la frase a metà. Ci riflettè ancora per un istante, “… potrebbe esserci un collegamento logico. Ci protrebbero essere varie ipotesi, come ad esempio: un killer incontrollabile. Ma secondo me, non è uno solo”, questa affermazione mi fece pensare a qualcosa come degli psicopatici che uccidono o rapiscono le ragazze, rabbrividii all’idea.
“Perché non sarebbe un solo killer?”.
Esitò per un’istante.
“Prima di tutto, sono state uccise due ragazze che non hanno niente in comune. Sono state uccise in giorni diversi, a cavallo di due settimane”, il suo ragionamente non faceva una piega, “Se noi pensiamo ai tre luoghi dove sono sparite le 2 ragazze e dove è stata uccisa Emy”, prese il coltello e tre bicchieri. Li posizionò in modo da formare un triangolo.
“Allora, questo è il punto in cui è sparita la prima ragazza, che si trova alle porte della città; la seconda sparizione è avvenuta sul lato ovest e l’uccisione di Emy nel alto est e questo. Crea un triangolo”, era un ragionamento plausibile. Su cui non avevo domande.
“Quindi, il killer o i killer hanno agito in posti diversi ma coordinati fra loro?”, domandai perplessa. Pensare che si aggiravano più di un killer in città, mi metteva i brividi.
“Esatto. Ma il problema sta nel: perché due sparizioni e un uccisione? Non ha una logica, che una persona posso dire: faccio sparire due corpi e il terzo lo lascio sul luogo del delitto. Non ha letteralmente senso! Perché lasciare una terza vittima, per di più la polizia non ha trovato nessun indizio. Un altro punto ineressante è che le tre vittime erano tutte ragazze che si aggirano tra i 17 e 19 anni, anche la scelta dell’età non è stata azzardata”, smettè subito di parlare perché qualcosa la turbava.
Fissava il coltello d’acciaio con cui giocherellava. Lo scrutò in tutti i minimi dettagli.
Mi domandai quali pensieri la attraversarono.
Cambiai, argomento: “Come ha reagito, papà alla notizia del giornale?”. Non distaccò gli occhi dalla lama seghettata, se la girò e rigirò. Mi ignorò, non mi stava ascoltando era assolta completamente nella sua mente.
Feci per alzarmi, quando uno stridio di metallo ridotto in frantumi, mi scosse.
Con voce calma, vellutata e perfetta, disse: “Hai mai pensato di avere un ragazzo?”.
Rimasi innoridita di fronte a quella domanda.
L’unica cosa che mi faceva rabbrividire era la parola “ragazzo”, una parola che non potevo sentire.
Sinceramente, non avevo mai pensato ad avere “ragazzo”, non sopportavo quella parola.
Era un argomento molto, ma molto delicato.
“No. E non ci voglio pensare”, dissi con voce pacata.
Lei mi guardò con quel suo sguardo che ti ipnotizzava, con i suoi occhi azzurro magnetico.
Mia madre sarebbe stata, di sicuro felice se ne avessi trovato uno. Le avrei dato una grande gioia. Come a tutti i genitori, del resto. Ma per me era l’ultimo delle mie preoccupazioni.
Però, avrei promesso a me stessa che ne avrei trovato una dopo aver finito il 5° anno (nel caso in cui fosse successo prima, l’avrei accettato lo stesso).
Mi fissava, ancora. “Secondo me, c’è già qualcuno.”
“Che stai insinuando mamma?”, non c’era nessuno, prorpio nessuno (mentii a me stessa), sapevo benissimo di chi mi ero innamorata.
“Ricky Russel”, affermò.
Rimasi impietrita di fronte alla sue parole. Mi sentivo calda, più del solito. Il mio viso stava andando a fuoco, sembrava che avessi la febbre. Non riuscivo a respirare.
Nella mia mente si materializzò: la sua faccia, i suoi occhi, i suoi capelli e il suo sorriso. Il suo corpo perfetto, capelli a spazzola. Me lo ero immagino in molte occassioni, ma quella era diversa dalle altre. Ci sognavo. Una volta avevo sognato di lui che aveva scoperto quello che ero, avevo anche sognato che mi baciava. Emanava una luce diversa dagli altri ragazzi, era qualcosa di speciale come se lui fosse il centro del mio universo. Ma era un sogno, solo ed un unico sogno.
“Guarda che lo so. Non credere che non me ne sia accorta”.
Di colpo la sua immagine sfanì in un’istante. Ripresi, la cognizione del tempo. Era come se mi fossi appena svegliata da un bellissimo sogno. Misi a fuoco quello che c’era di fronte a me.
La faccia di mia madre, mi portò a come mi sentivo qualche minuto fa.
Ok, aveva ragione. Ma questo non significava proprio nulla.
“Non negare l’evidenza. Ce l’hai scritto in faccia”, non ci voleva un genio per intuire che ero innamorata di Ricky. Il primo ragazzo per cui avevo provato questo genere di sentimento.
“Ok”, ammisi. “Ma non hai calcolato una cosa”, la colsi di sorpresa.
“E cosa?”, domandò incuriosita.
“Ammettiamo per un momento, che io sia la sua ragazza”, rabbrividii all’idea. “dovrei raccontarli il mio piccolo segreto?”.
Ci guardammo.
“Non necessariamente, dovresti dirglielo”. Mi aspettavo una risposta diversa.
Contrabattei. “E come dovrei spiegarli: del mio aspetto fisico e dei miei occhi?”, volevo proprio arrivare a questo punto della discussione.
Ci riflettè. “Potresti dirli che sei nata così”.
“Non mi sembra una risposta, plausibile. Dai, mamma. Lo si vede lontano un chilometro che nascondo qualcosa. E credo che lui sia così stupido da crederci”, rimasi un istante senza fiato. “No. Ma ti sembra una cosa normale che una ragazza sia così, non lo credo”, mi guardò come per dire “E ci posso fare io”.
“Non sono mica io che ho deciso di farti nascere così”, ribattè. E in questo aveva ragione.
“Era meglio che non nascevo, se la mettiamo su questo punto. Avrei capito se fossi stata un ragazzo, ma una ragazza! Insomma, non posso avere una vita normale come tutte le persone che vivono su questa terra!”. Dovevo precisare un altro punto.
Neanche il tempo di aprire bocca, quando sentii la porta d’entrata aprirsi. Era mio padre.
“Chi non vorrebbe essere nato?”, urlò dal corridoio.
Ci mancava che ci si mettesse anche lui, in questa discussione.
Con una camminata molto sexy, si diresse verso di me. Mise le mani sulla sedia e mi guardò.
“Io, non dovrei essere mai nata!”, dissi con tono arrabbiato. Guardò, la mia espessione con stupore.
“E perché no?”, domandò. Mi aspettavo che fosse infuriato come un grizzly disturbato mentre dormiva. Invece, sereno e comprensivo.
Che casa l’aveva cambiato?
“Mamma, spiegaglielo tu”, mi assecondò.
“Tua figlia, non è soddisfatta di quello che è. Lei vorrebbe vivere una vita normale come tutte le ragazze della sua età. Invece di passare la sua esistenza con il timore di essere scoperta per quello che è”. Spiegò la situazione in modo semplice e mirato dritto al punto, senza giri di parole.
“Dunque, questo è problema? Non mi sembra una cosa così grave”. Secondo me, non gli importava.
“Invece, è grave!”, protestai. “Tu non capisci quanto è grave! Non posso avere una vita normale, per il semplice fatto che sono un licatropo! Una ragazza con una muscolatura sviluppata più del solito!”, tirai fiato. Avevo scaricato tutta la mia rabbia e disperazione contro di lui.
Mi aspettai, che mi prendesse per i capelli e mi trascinasse per il corridoio. Invece, con mia grande sorpresa era rimasto sereno.
“Lo so, che è dura per te. Ma così è la vita”, mi guardò da capo a piede, “ma non mi sembra, che tu abbia questo grave problema della muscolatura”.
Le sue ultime parole, mi fecero arrabbiare così tanto. Ma così tanto, che tesi tutti i muscoli.
“E così, ti sembra che non ne abbia! Anche Ilary se ne è accorta. Ha voluto persino fare a braccio di ferro! Quindi non dirmi che non si nota!”, feci una breve pausa.
Mi calmai, perché era inutile scaldarsi. Passai al monologo: “Ogni volta che mi guardo allo specchio, mi chiedo perché sono nata così. Ma poi ci rifletto, non è ne colpa mia, ne colpa vostra. Che essere un licantropo ha i suoi pregi e i suoi difetti. E devo accertarmi per quello che sono”.
Il mio discorso gli impetrì. Assomigliavano a due statue scolpite nel marmo. Mi veniva quasi da piangere.
Mio padre si avvicinò, mi abbracciò e mi cullò.
“Non ti preoccupare”, sussurò. “tu sei la mia bambina. Non importa come sei fatta fisicamente o emotivamente. Ma io ti ricorderò come la mia lupacchiotta ribelle”, mi confortò con le sue parole fecero un effetto strano, nella mia sfera emotiva.
Aveva ragione, non dovevo preoccuparmi di queste cose. Perché c’erano questioni più peggiori. E non era il mio aspetto fisico, che mi cambiava la vita.
Sciolsi l’abbraccio. “Grazie, papà”.
Ero molto legata a lui più di mia madre. Ricordo ancora, quando mi portava sulla scogliera ad osservare: le balene, il mare con le sue onde, i gabbiani che volavano sopra il pelo dell’acqua e l’aria salmastra che ci accarezzava (ricordo che mi rimmarrano impressi, nella mia vita per sempre).
Mia madre non disse una parola.
“Passiamo a cose più serie”, il suo tono divenne più autoritario.
Si sedette a capotavola e io di fianco a lui, con mia madre di fronte.
“Oggi ho fatto alcune ricerche sul puma che hai ucciso tu”. Sicuramente ero stata io a fare quel disastro.
“Lo so, sono stata io e me ne pento”, la mia voce uscì come se avessi confessato un crimine.
Si voltò verso di me. “Non esattamente”, precisò.
Come? Non ero stata io? Avevo di sicuro capito male.
Continuò a parlare, senza darmi importanza. “Abbiamo trovato, si delle tracce. Di un animale di grossa taglia. Ma si dirigevano verso sud e il puma è stato smembrato da qualcun altro, non da te. Abbiamo esaminato se l’animale di grossa taglia, aveva cacciato apposta il puma. Non è stato così …”, continuò il suo discorso. Da cui che era emerso che non stata io.
La dimanica dell’accaduto coincideva con quello che avevo fatto la sera precedente: ero andata a sud, ma non avevo incontrato nessun puma.
Il puma l’avevo incrociato sul confine con lo stato di Washington. E chi aveva ucciso e smembrato quel povero puma?
Interuppi mio padre nella sua spiegazione che stava facendo.
“E da chi è stato ucciso?”. Si voltò verso di me e disse: “Non ne sono sicuro. Ma sembra si tratti di umani, non umani qualunque”.
Umani? Che cosa significava questo? Che c’erano persone che si divertivano a smembrare puma?
“Ma, papà. In questa stagione si cacciano i puma…”, mi interuppe. “Questo lo so anche io, ma non è questa la questione”.
“E qual è la questione?”, intevenne mia madre.
Bene, la questione non era il problema della caccia. Quindi, il problema era quello delle traccie umane.
“La questione è: Perché abbiamo trovato delle traccie umane accanto alla carcassa del puma?”, questo mi incuriosiva.
Non credevo che delle persone si divertivano a cacciare e smembrare puma, questa cosa essomigliava a un rito voodoo.
Pensai a qualsiasi elemento, che ricoresse a qualche dettaglio. Ma non ricordai nulla. Non avevo notato nessuna presenza di umani.
Mio padre, continuò a spigare le sue teorie. Cioè, aveva trovata delle traccie umane, ma aveva detto che non erano umane. Intendeva, che si trattava di qualcosa di soprannaturale; qualcosa di misterioso o di oscuro?
Le uniche cose soprannaturali che conoscevo erano: i vampiri e i licantropi (telefilm apparte) e gli unici eravamo “noi tre”.
“Quindi si tratta di qualcosa di soprannaturale?”, domandai.
Intervenne, mia madre: “Potrebbe essere, dato che tuo padre ha detto si tratta di traccie tutt’altro che umane”.
“Potremmo supporre che si tratti di vampiri”, proposi.
“Molto interessante. Se fossero stati dei vampiri, me ne sarei accorto”, disse mio padre con un velo di sarcarsmo, mentre preparava la cena.
“Mettiamo il caso che avrebbero cancellato le loro traccie”, non era un ragionamento sensato. “E avrebbero lasciato delle tracce e cancellato l’odore per disorientarvi e farvi capire che ero stata io”, conclusi.
Probabilmente, era stato così. Non c’era altra spiegazione.
Il silenzio più totale, si sentii in tutta la casa.
“Forse è meglio che vada a cominciare la ricerca di geografia”. Mi alzai e andai in camera.
Non avevo affatto voglia di farla, ma dovevo. Prima o poi. Cercai il libro, fra la catasta di libri scolastici. Lo aprii, diedi un’occhiata veloce ai vari stati. L’unico che mi ispirava in quel preciso momento era l’Italia.
Accesi il computer, dovevo solo cercare alcune informazioi che sul libro non c’erano e magari ci avrei inserito qualche immagine.
Cercai nel motore di ricerca, qualcosa di interessante.
Digitai, “Italia”. Una sfilza di di cose camparirono sullo schermo, che illuminava una parte della camera.
Cliccai, sul primo link. Lessi rapidamente. Copiai, le informazioni base, qualche cenno storico e la popolazione (lo feci in modo sbrigativo, mi sentivo stanca e volevo finire al più presto).
Andai a cercare i monumenti più importanti. Erano troppi, non ci stavano tutti. Ne scelsi una solo il “Colosseo”.
Assemblai tutto, ci aggiunsi informazioni estratte dal libro. Salvai il tutto, non avevo voglia di rileggerlo.
Lasciai il computer acceso e mi buttai sul letto. Chiusi gli occhi.
Mi svegliai.
Era avvolta dal buio nero.
Alla prima occhiata, non mi sembrava di essere in camera mia. Era tutto così buio, per capire quella che mi circondava.
Mi alzai, guardai sotto i miei piedi, li sentivo bagnati. Un rumore, di cascate si sentii provenire da destra.
Mi voltai, ma non c’era nulla. Sotto di me, stava scorrendo un ruscello.
Un urlo interuppe il silenzio. L’avevo già sentito.
Corsi il più veloce possibile. Sentivo i piedi che sembravano due pesi di piombo.
Anzai ancora. Mi fermai.
C’era una ragazza rannicchiata, su un prato tutto insaguinato. Aveva i capelli lunghi, ricci; di color nero come la notte. Indossava un abito bianco semplice. Mi avvicinai a fatica, lei non si mosse era ferma in quella posizione, mi fermai a pochi passi. I suoi occhi erano fissi per terra.
Era immobile. Osservai uno spiraglio di luce che proveniva dal cielo coperto di nubi nere. Su di lei risaltava il colore rosso del sangue.
Improvvisamente, si agitò un terremoto. La terra si scosse sotto i miei piedi, non sapevo cosa fare.
Come un flash, ricordai la vibrazione del mio cellulare, nella tasca del jeans.
Riaprii gli occhi. Ero tutta sudata, il cellulare vibrò ancora. Lo estrassi dalla tasca. Era, Manuel.
“Pronto?!”, dissi con uno sbadiglio.
“Katie! Devi venire subito!”, disse preoccupato. Aveva il respiro affannoso. Mi colse di sorpresa. Feci un balzo sul materasso. Pensai rapidamente, il mio cervello era ancora in fase di accensione.
“Calmati, Manuel. Che cosa è successo?”, mi sentivo ancora mezza addormentata.
Osservai, l’ora. Erano le 02.00. Il computer era ancora acceso e la sua luce riuscì a illuminare quel poco che poteva l’orologio appeso al muro.
Avevo dormito così tanto? E quel sogno, quell’incubo.
“Katie… Ilary… Ilary… è… è…”, sembrava un balbuzziente. “Ilary! E’ scomparsa!”, urlò. Era spaventato, il respiro era affannoso.
Di colpo il mio cervello, si accese come una lampadina. “Scomparsa!?”, esclami preoccupata. “Dove e quando?”. Non avevo coraggio, di pensare che cosa era successo.
“A casa sua, era rientrata alle 23.00, si era dimenticata la sua maglietta e sono venuto a riportagliela. Dio! Katie! Devi venire subito!”.
“Ok. Manuel, dammi due minuti e sarò subito da te”. Riattaccò.
Misi direttamente le scarpe. Mi precipitai per scale. Presi le chiavi della macchina.
“Mamma, devo andare a casa di Ilary. Manuel, mi ha chiamato. Ha detto che è scomparsa”.
Chiusi la porta, andai in garage. Salii in macchina e partii.
Ps. Grazie, mille!! Lupetta! Sono contenta che ti piaccia
anche se sto pensando che questo racconto è un pò fallimentare... e chissà per quale motivo, lo sto continuando a scrivere... mah.. probabilmente è una droga la scrittura, per me....
Ciao!!