World of Werewolf

Una ragazza, un sogno, una speranza., Questo racconto è nato dalla mia forte passione di questo essere, è misto fra realtà e fantasia. I personaggi sono più o meno tutte persone che esistono realmente. Spero sia di vostro gradimento.

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Winwolf_93
view post Posted on 14/6/2012, 14:28




CAPITOLO 1



Il vento accarezzò l’erba verde e le foglie degli alberi. Il sole splendeva nel cielo blu senza nuvole.
Ecco, un’ombra a pochi metri si mostrò e venne alla luce: pelo marroncino folto, due occhi che guardavano dritti in una direzione, due orecchie puntate anch’esse in una sola direzione. Quattro zampe, una coda che ondeggiava dolcemente a destra e sinistra. Avanzò per qualche metro poi si fermò. Stava puntando un’altra ombra, questa volta aveva un pelo corto marroncino scuro con delle macchioline bianche, quattro zampe magre e slanciate, due orecchie larghe che si muovevano in varie direzioni, i suoi occhi erano puntati verso terra e una coda corta che puntava verso il basso.
Un’altra ondata di vento accarezzò l’erba. Guardai entrambi, decisi che era il momento di agire. Contai fino a dieci, respirai a fondo e scattai come una molla.
Era una mattina come tutte le altre, il sole stava sorgendo, le gocce di rugiada sulle foglie degli alberi, gli uccelli che cantavano felici. Un leggero venticello accarezzò l’ambiente circostante.
Era il primo giorno di primavera, mi sentivo rinata dopo un inverno di neve e bufere.
Scesi le scale e andai in cucina, lì mi aspettavano i miei genitori.
“Come è andata la nottata, cara?”, chiese mia madre. Solitamente ogni mattina me lo chiedeva, ed io rispondevo sempre alla stessa maniera: “Come sempre, benissimo!”, mio padre mi guardò un po’ perplesso, come dire non hai altro da aggiungere?, lo ignorai. Non gli davo troppa importanza.
Mia madre stava preparando la colazione e le diedi una mano ad apparecchiare la tavola.
“Allora, Katie …”, non mi piaceva quando mio padre iniziava una frase con allora, non presagiva nulla di buono: “… mi dici che cosa hai fatto ieri sera?”, l’espressione della sua faccia non era affatto allegra.
“Se non te lo dico papà, cosa mi farai?”, lo stuzzicai un po’.
Batté la mano sul tavolo, quasi si crepò. Appoggiai delicatamente le posate su di esso. Mia madre depose il piatto con al suo interno il pane, davanti a lui. Con un gesto di totale aggressività lo sbatté contro la mobilia. Si alzò in piedi e con il dito puntato verso di me, disse: “Ragazzina! Tu lo sai perché ti ho messo in punizione tre settimane fa!?”, era veramente furioso, questa volta avevo superato il limite.
“Non c’è motivo di arrabbiarsi, Peter”, intervenne mia madre mentre raccoglieva i cocci di ceramica. Mi sedetti per non peggiorare la situazione.
Si girò verso di lei: “Se Katie, non capisce le regole …”, non finì la frase, era troppo arrabbiato per continuare. Lei si alzò con i cocci di ceramica in mano, li gettò nei rifiuti.
“Io non ci posso fare niente, è più forte di me”, intervenni (feci male). Entrambi si voltarono verso di me, continuai (anche se i loro sguardi non mi convincevano molto): “… so che non devo fare certe cose, ma è più forte di me …”, mio padre m’interruppe: “Più forte di te!? Dopo questa, tu non metterai più piede fuori da casa. Ci siamo capiti?”, la sua rabbia traspariva dal suo viso e dal suo corpo, i suoi muscoli si irrigidirono e il suo sguardo mi guardava fisso. Mia madre mi lanciò un’occhiata, con un’aria di approvazione (non ci credevo, prima mi difendeva e adesso stava dalla parte di mio padre).
“Ora vado a lavorare”, disse con amarezza.
“Non mangi caro?”, domandò lei, con un’aria preoccupata. Non le rispose, posò a posto la sedia e se ne andò verso il corridoio. Prese il giubbotto verde assieme al cappello alla militare. Aprì la porta e la richiuse.
Mia madre mise a posto tutto, si prese un sacchetto di biscotti dallo scaffale, sopra il piano cottura. Aprì frigorifero accanto alla mobilia del forno e prese il latte. Afferrò la sedia la tirò fuori e si sedette.
“Questa volta l’hai combinata grossa”, inzuppò il biscotto estratto dalla scatola nel latte versato nella tazza blu. La ignorai completamente, non m’importava granché, anche perché il peggio era passato.
Mi alzai e andai verso le scale per dirigermi in camera mia.
Mi sdraiai sul letto e riflettei:
“Ok. Avevo sbagliato, mi sento in colpa. Il fatto è che era inevitabile, cosa potevo farci? Insomma il motivo è che i miei istinti non riesco a trattenerli e questo mi dà un sacco di problemi. Anche perché devo segregarmi per impedire che accada di nuovo? Mah …”
I miei ragionamenti erano talmente contorti che lasciai perdere.
Guardai l’orologio appeso al muro, segnava le 7.30. Dovevo prepararmi.
Mi alzai di scatto, aprii l’armadio presi: il mio paio di jeans neri preferito e la felpa nera con raffigurato un cavallo, poi presi la cintura azzurro chiaro.
Mi tolsi i vestiti che indossavo e li riposi sul letto e infilai quelli nuovi. Mi precipitai di sotto per mettere le scarpe. Andai in cucina per prendere la cartella. Lei era seduta che fissava il vuoto.
“Ciao!”, dissi con un cenno della mano mentre andavo verso la porta, m’ignorò completamente. Aprii la porta e la richiusi delicatamente. Scesi i dieci scalini di marmo bianco e andai verso il garage, che stranamente trovai aperto. Entrai in macchina.
Questo era quello che succedeva ogni lunedì mattina.

Il mio nome è Katie Winwolf, ho 17 anni. Abito a pochi chilometri da Vancouver, con i miei genitori: Peter Winwolf e Nadia Stigman. Siamo un’allegra famiglia di origine italiana, che ha qualche differenza dalla gente comune. Mio padre lavora come guardia forestale del paese mentre mia madre come veterinario.
Io invece studio ancora, sono alla fine del 4° anno e spero tanto di essere promossa.
Non ho molti amici, gli unici sono: Ilary, Manuel e Mattia e sono gli unici che mi comprendono, anche se mi trovano strana. Il resto della classe non mi considera, ogni volta che ci entro mi guardano storto e non ho mai fatto nulla di male. Il motivo è che devo nascondere il mio corpo specialmente le braccia, perché si noterebbe quanto sono diversa.

Stavo per arrivare a scuola e come al solito, al solito parcheggio c’era Manuel con la sua Audi A4 nera. Diciamo che li piaceva mettersi in mostra. Questo solo all’apparenza, in realtà era un ragazzo molto realista.
Parcheggiai vicino alla sua macchina, la spensi e aprii la portiera.
“Buongiorno, Katie”, mi accolse con un ampio sorriso. La sua espressione del viso era serena come sempre, era lui che mi rallegrava la giornata.
“Buongiorno anche a te, Manuel”, risposi cortesemente. Indossava i suoi occhiali da sole preferiti, i soliti due orecchini e le solite scarpe bianche, aveva cambiato solo i jeans e la maglia. Sospirò.
“Allora, com’è andato il fine settimana?”, odiavo quando mi chiedeva queste cose. Con un sorriso risposi: “Bene, sono andata con i miei a fare un piccolo giro qui in zona, niente di che”, mi guardò perplesso e diresse lo sguardo dietro a me.
“Ho capito. Io invece sono andato in centro a fare un po’ di acquisti, sai domani mia cugina compie gli anni quindi …”, non era bravo a fingere, sapevo esattamente perché guardava dietro di me, ma feci finta di niente.
“Il compleanno di tua cugina, Katherine se non sbaglio?”, stetti al gioco. Non staccò lo sguardo da dietro di me. Dei passi lenti e molto rumorosi avanzarono verso di me.
“Si… mia cugina Katherine compie 19 anni…”, non continuò la frase.
All’improvviso: “Buh!”, gridò Mattia. Mi voltai, prima che mi toccasse le spalle e con un ghigno, dissi: “Mattia, non mi coglierai mai di sorpresa”, lui rimase sbalordito per l’ennesima volta.
“Ma come fai?”, Manuel rise sotto i baffi, lo sentii.
“Se te lo dicessi non mi divertirei a sorprenderti. Comunque ciao”, sorrise. Ricambiai, anche lui era vestito nuovo tranne l’acconciatura dei capelli.
“Ragazzi ma dov’è Ilary?”, mi guardai attorno, scorsi solo studenti che entravano a scuola. Mancavano dieci minuti al suono della campanella. Solitamente Ilary era sempre in ritardo: una volta era in ritardo perché aveva perso l’autobus, l’altra perché si addormentava e un’altra volta perché… vabbé, ce ne sarebbero di cose da dire. Le avevo chiesto più volte se voleva che le dessi un passaggio, ma aveva sempre declinato.
L’affermazione di Manuel, mi distolse dai miei pensieri: “Avete sentito la notizia di oggi?”, mi girai verso di lui che mi guardò in modo strano.
“Quale?”, esclamammo io e Mattia. Ci guardammo entrambi.
La voce di Ilary interruppe Manuel: “Salve ragazzi! Scusate il ritardo”, aveva due guance rosse e un fiatone che sembrava non potesse più respirare.
“Ciao, Ilary!”, disse Mattia voltandosi verso di lei. Io e Manuel le facemmo un cenno con la mano.
“Sempre in ritardo”, dissi sarcastica.
Aveva i capelli sciolti lunghi fino alle spalle con un cerchiello in testa, una felpa grigia con il cappuccio, un paio di jeans blu scuro e le sue solite scarpe nere, non indossava gli orecchini.
Lei era la mia migliore amica che avessi mai avuto in tutta la mia vita, anche se su certe cose non siamo d’accordo. Come ad esempio la musica: io con i grandi gruppi del passato, mentre lei quelli attuali.
“Allora ragazzi, siete pronti per la festa di questa sera?”, disse Manuel. Lui era tra le persone che organizzavano la “Festa di Primavera”. Nel nostro paese lo si faceva ogni anno.
“Io ci sarò, come sempre del resto”, commentò Mattia guardandomi.
“Diciamo che io non parteciperò. Per il semplice fatto che non mi piace a stare in un posto con tante persone”, dissi con tono calmo e dolce. Ilary, Manuel e Mattia mi guardarono perplessi.
Era una lunga storia.
21 marzo del 2009, mi ero recata nella piazza principale per incontrare i miei amici, che mi avevano invitata. Li trovai nell’angolo dove servivano da bere. L’atmosfera era piacevole, c’era molta gente che: parlava, danzava, mangiava e beveva. Io mi sentivo fuori posto, le feste non erano il mio ambiente.
“Ah, eccola!”, gridò Manuel. Corse verso di me: “Finalmente sei venuta credevamo che non venissi”, mi strinsi nelle spalle come segno di eccitazione.
“Dai vieni, che ti faccio conoscere un po’ di gente”, prese la mano e mi trascinò. Non volevo essere coinvolta in cose simili, ma se questo faceva piacere a Manuel e agli altri.
“Ragazzi vi presento Katie”, disse a dei ragazzi che non conoscevo minimamente.
“Ciao …”, dissi timidamente. I loro sguardi non mi convincevano molto. Il loro odore aveva un so che di strano, era la prima volta che ne sentivo uno così. Identificarlo non era affatto semplice. I loro occhi erano neri, la pelle bianca e cosa molto strana il loro cuore non batteva. Il mio istinto mi diceva che dovevo fare qualcosa. Alzai gli occhi al cielo: le nubi dal cielo sparirono e la luna piena risplendeva nel nero della notte.
Manuel stava parlando con i suoi amici, non mi sentivo bene. Stavo sudando freddo, le mani mi tremavano e cosa peggiore sapevo che cosa stava accadendo. I due ragazzi strani mi guardarono, più mi guardavano e più il mio istinto di trasformazione cresceva.
“Katie, ti senti bene?”, disse Manuel. Mattia e Ilary non erano lì in quel momento. Dovevo tenere a freno il mio istinto, ma era più forte di me.
Cominciai a ringhiare contro Manuel, dovevo andarmene alla svelta. Avrei combinato un putiferio se mi fossi trasformata, si allontanò da me spaventato. I due ragazzi mostrarono i denti.
Vampiri quella parola mi gelò nelle vene e allo stesso tempo il mio desiderio di trasformazione e quello di uccidere prevalsero.
Dopo quell’esperienza, avevo deciso di non partecipare alle feste.
La campanella suonò, dovevamo andare in classe.
Tutti e quattro ci dirigemmo, verso la porta d’entrata. Il rumore degli studenti, che rientravano nelle proprie aule. I professori che li richiamavano e i bidelli che giravano ore e ore in cerca degli studenti per consegnarli dei documenti. Questa era la solita routine del lunedì mattina.
 
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Winwolf_93
view post Posted on 16/6/2012, 13:35




CAPITOLO 2



Le lezioni passavano lente ed io non ce la facevo più. Stavo scarabocchiando sulla copertina del mio quaderno di matematica. Pensavo all’affermazione di Manuel Avete sentito la notizia di oggi?, chissà che cosa era successo, da sconvolgerlo così tanto.
C’erano troppi pensieri che mi tormentavano, lasciai perdere.
Continuai a scarabocchiare, i pensieri si ripercuotevano nella mia mente. Scossi la testa, ma non se ne andarono. Quello che mi tormentava di più era quella della notizia, solitamente mio padre prendeva sempre il giornale, ma questa volta no, ed ero curiosa di che cosa si trattava.
La professoressa Dekker stava spiegando i fatti della 2° guerra mondiale, in particolare stava esponendo il famoso attacco del 7 dicembre 1941 alla base navale di Pearl Harbor delle isole Hawaii. Spiegò come gli aerei giapponesi attaccarono, ma non m’importava più di tanto in quel momento.
Una voce mi chiamò. Una voce dolce maschile. Mi voltai con molta cautela e Ricky, sorrise.
Ricky il ragazzo più bello che io abbia mai visto: capelli corti a spazzola, occhi castani e un sorriso che mi faceva battere il cuore ogni volta che lo vedevo. Mi chiedevo perché mi avesse chiamata, solitamente non mi rivolgeva quasi mai la parola.
Stava per aprire la bocca, quando il richiamo dell’insegnante mi fece girare di scatto.
“Signorina Winwolf, vuole gentilmente ripeterci i fatti del 7 dicembre 1941?”, disse guardandomi dritta negli occhi.
“Ehm, si …”, dissi con un velo di incertezza. Tutti si voltarono verso di me. Avevano gli occhi dei miei compagni puntati addosso. Appoggiai la penna sul banco e cominciai a parlare: "Il 7 dicembre 1941 ci fu l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor delle isole Hawaii. L’attacco consisteva nell’affondare la flotta navale della marina militare e tutti i caccia bombardieri. Tra le numerose perdite contiamo l’affondamento di 5 navi corazzate, tra cui la Corazzata Arizona, considerato cimitero di guerra”.
Tutti rimasero sbalorditi di fronte alle mie parole.
“Ok, basta così”, tirai un sospiro di sollievo.
“Riprendiamo ragazzi”, disse la professoressa Dekker. Si girò verso la lavagna e cominciò a scrivere. Continuai a scarabocchiare sul quaderno di matematica che odiavo tanto.
Finalmente suonò la campanella, non ce la facevo più.
“Bene, ragazzi. La lezione è finita”, disse la professoressa. Mattia, disse: “Amen”, feci un sorrisino.
Mi alzai dalla sedia, presi la cartella e la appoggiai sul banco, misi il quaderno e l’astuccio al suo interno. Me la misi in spalla e aspettai: Ilary, Mattia e Manuel, che stavano parlando fra di loro su cose che non m’interessavano. Accanto a loro c’era Ricky, lo guardai in tutti i suoi movimenti. Il mio cuore batteva all’impazzata, provavo un’attrazione così forte verso di lui che l’avrei abbracciato.
Era il ragazzo più perfetto che avessi mai conosciuto, si voltò verso di me distolsi lo sguardo. Lo indirizzai verso Manuel, che stava facendo dei gesti strani.
“Allora andiamo o no!?”, urlai a Mattia che mi face cenno di aspettare. Cominciai a battere il piede sul pavimento e incrociai le braccia. Ricky era ancora lì e sistemare le sue cose. Il cuore ricominciò a battere velocemente. Forse mi ero montata un po’ la testa, ma la mia attrazione verso di lui era qualcosa di speciale, qualcosa che veniva da dentro.
Finalmente Manuel, Ilary e Mattia vennero: “Che cosa avevate da dirvi?”, anche se sapevo già di che cosa si trattava (l’ultimo gioco uscito per la playstation), argomento che non interessava molto.
“Oh, niente di che”, disse Mattia sarcastico.
Uscimmo dalla classe e ci dirigemmo verso la mensa. Sentivo un leggero profumo di carne, pollo se il mio fiuto non sbagliava.
“Voi sapete il menù di oggi?”, chiese Ilary. Mattia e Manuel si guardarono negli occhi e si strinsero nelle spalle.
“In teoria pollo e patatine, con un ricco buffet di verdura e frutta, ma non ricordo se c’era qualcos’altro”, disse Mattia con un sorriso.
“Ogni tanto che fanno un menù, decente”, protestò Ilary. Aveva ragione. Solitamente facevano dei menù orrendi, adesso per fortuna era cambiato il capo cuoco e sinceramente adesso era più decente, specialmente la carne era durissima come una suola di scarpa. Adesso era più commestibile.
Ci dirigemmo al solito tavolo, appoggiammo le cartelle sul pavimento e tutti e quattro ci mettemmo in coda, per prendere la nostra porzione. Manuel invece era andato a prendere della verdura.
Tutti gli studenti della scuola, stavano: mangiando, parlando e bevendo tutti assieme e non vedevo l’ora di mangiare anch’io, avevo una fame che non ci vedevo più. Lo stomaco brontolava in segno di protesta. Mi diedi una botta sulla pancia per farlo stare zitto. La fame era una cosa che non sopportavo, anche perché la mia era una fame incontrollabile. Avevo imparato a gestirla.
Per fortuna davanti a me c’erano solo due ragazze. Quella che stava prendendo il vassoio d’acciaio era Marie, la figlia del proprietario del negozio di abbigliamento della città, mentre la ragazza davanti a me c’era Emy la figlia del capo della polizia. Entrambe frequentavano il 5° anno e si stavano preparando per la maturità.
Lo stomaco continuò a borbottare. Non ce la facevo più, mi sentivo svenire. Il profumo di pollo appena versato nel vassoio di Emy, mi faceva venire l’acquolina in bocca.
Finalmente era il mio turno. Presi il vassoio d’acciaio alla mia sinistra, lo ripresi e mi diressi verso il tavolo.
Manuel nel frattempo aveva portato qualcosa da bere e stava per andare a prendersi anche lui il pollo.
Giunsero dopo pochi minuti anche Mattia e Ilary con le posate. Dopo pochi minuti ritornò Manuel, con due porzioni anziché una. Si sedette di fronte a me appoggiò il vassoio, diede le due lattine di aranciata a Ilary e Mattia, mentre a me una bottiglietta d’acqua.
Prese forchetta e coltello e cominciò a mangiare.
L’osservai, lo seguii in tutti i suoi movimenti. Si ricordò di una cosa, prese la cartella appoggiò la forchetta sul tavolo, la aprii e ne estrasse una lattina di CocaCola. Posò la lattina e la aprì. Presi anch’io forchetta e coltello e cominciai.
Mattia e Ilary stavano ancora parlando dell’ultimo gioco per la playstation. Manuel si divorò la prima porzione mentre stavo finendo.
“Manuel, mi dici quale notizia è uscita sul giornale?”, gli chiesi. Ero ansiosa della risposta. Continuò a divorare il pollo.
Mattia e Ilary stavano finendo e mentre bevevano la loro aranciata.
Attesi la risposta di Manuel. Continuò a mangiare e prese la seconda porzione. Mi guardai in giro e scorsi solo studenti che mangiavano e parlavano. Vidi nuovamente Ricky e il cuore cominciò a battere all’impazzata. Ok, forse esageravo. Ma lui era così bello. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo viso.
Mi girai verso Manuel, nell’attesa della risposta.
“Allora, Manuel. Mi dici la notizia?”, non distaccò lo sguardo dal suo pollo, lo stava divorando come un lupo affamato. Prese il tovagliolo e si pulì la bocca. Appoggiò le posate nel vassoio, bevve un sorso della CocaCola.
“Quindi?”, dissi con aria di impazienza. Fece un respiro profondo e mi guardò con i suoi bellissimi occhi azzurri.
“La notizia di cui stanno parlando i giornali, radio e telegiornali è l’uccisione di un puma”.
“Un puma!? E questa era la notizia che aveva fatto tanto scalpore!?”, dissi nella mia mente.
“E allora? E’ stagione di caccia ed è una cosa normalissima”, affermai. Mattia e Ilary smisero di parlare tra di loro e si voltarono verso noi due.
“Non hai capito bene, la questione. Lo so anche io che è stagione di caccia ai puma, ma non è questo il punto …”, Manuel era un po’ agitato mentre parlava.
“E qual è il punto?”, lo interruppi. Non si scompose. Continuò a parlare: “Il punto è che… il puma non è stato ucciso da una pallottola di fucile”, la cosa mi incuriosiva molto: “E da chi o cosa è stato ucciso?”, quando gli feci la domanda i suoi occhi si accesero. Prese la lattina e se ne bevve un sorso.
Era come se avesse paura di pronunciare quello che voleva dire. Si leggeva il timore nei suoi occhi.
“Di conseguenza?”, lo spronai a dirlo, ma non riusciva. Aspettai che si calmasse, non capivo proprio la sua reazione.
“Chi poteva avere ucciso un puma?”, mi venne l’illuminazione, “Ero stata io! Ieri pomeriggio avevo ucciso molti animali. Il puma rientrava nella mia categoria prelibata di carni. Di sicuro, non lo facevo. Non mi piaceva ed era proibito, però mi sorgeva un dubbio”.
Manuel aprì bocca: “La guardia forestale ha stimato che è stato un animale di grossa taglia, come ad esempio un grizzly”.
“Ma i grizzly non attaccano i puma e non se li mangiano!”, intervenni.
Avevo combinato un bel disastro ed era per questo, che mio padre mi aveva messo in punizione. Lo sapevo, non dovevo farlo. Eppure me l’aveva detto, che avrei attirato l’attenzione e adesso ne avrei tratto le conseguenze.
“Speriamo che trovino l’animale che l’ha ucciso”, disse Ilary. Io speravo di no, ero io l’animale di grossa taglia.
Sorvolai, Manuel prese la verdura dal piatto e se la versò in un altro. Mattia e Ilary si guardarono e ricominciarono a parlare.
Presi il mio vassoio, ci posai sopra la bottiglietta di acqua e le posate. Mi alzai e lo portai dove c’erano anche gli altri vassoi.
Tornai al mio tavolo, Manuel stava pensando. Aveva una faccia non molto convincente. Mi sedetti e lo guardai.
“Allora quale stato farai per il compito di geografia?”, mi guardò con aria pensierosa.
La nostra professoressa Barrett di geografia, ci aveva assegnato il compito di fare una ricerca completa su uno stato a nostra scelta ed io non avevo ancora deciso. Avevo già qualcosa in mente.
“Avevo optato per la Spagna”, sorrise mentre lo disse. Sapevo bene per sorrideva. Manuel aveva sempre sognato di andarci.
“Bellissimo stato! E’ dove vorresti andarci, vero?”, mi guardò come per dire: “Si!”.
“E tu, cosa hai scelto?”, mi domandò incuriosito.
“Io? Avevo in mente molti stati”, stava giocherellando con la lattina della CocaCola, mancava solo che se la rovesciasse addosso. Mi guardò con i suoi occhi azzurri, sorrise.
“E quali sarebbero?”, ci interruppe Mattia. Distaccai gli occhi da Manuel e mi girai verso Mattia: “Beh, avevo pensato a 3 stati: Giappone, Italia e Germania”, Mattia mi guardò e sorrise, “che cosa aveva da ridere?” dissi tra me.
“Tu Mattia? Che cosa hai scelto?”, gli chiesi.
“Io? Ah, beh. Allora: Inghilterra, Spagna e Portogallo!”, disse sarcastico.
“Veramente? Non ci credo”, sapevo che stava scherzando.
“Si! Li farò tutti e tre e come se li farò!”, esclamò.
Io, Ilary e Manuel scoppiammo a ridere. “Si, come no, Mattia!”, disse Manuel. Mentre rideva ancora.
Le nostre risate furono interrotte dal suono del campanello. Finalmente era finita. Mi aspettava un pomeriggio di pura e semplice noia, rinchiusa in casa e non avevo affatto voglia di rimanerci. Ero in punizione quindi, dovevo attenermi alle regole.
Presi la cartella e mi diressi verso l’uscita senza salutare i miei amici. Uscii dalla scuola, andai verso la mia macchina.
Mi diressi verso casa, pensai a che cosa fare per tutto il pomeriggio, “c’era una scelta molto ampia: ascoltare musica, leggere, scrivere, studiare, cucinare qualche torta (l’idea mi piaceva), oppure mettere apposto la mia camera, che era un totale disastro.”
Insomma avevo una vasta scelta, ma nessuna di esse mi rendeva felice. Il pomeriggio preferivo uscire all’aria aperta e correre nelle verdi praterie del Canada e assaporare l’aria salmastra del mare sulla scogliera.
Arrivai a casa, parcheggiai la macchina in garage, scesi e la chiusi.
Entrai, appoggiai la cartella sulla sedia in corridoio vicino al mobiletto di legno. Infilai le pantofole e mi tolsi le scarpe che riposi sotto la sedia.
Stranamente non c’era nessuno a casa, solitamente c’era mia madre ad attendermi. Oggi no. Probabilmente sarà stata impegnata con il suo lavoro, in questi ultimi tempi lavora molto quasi a orario continuato, se c’erano emergenze le doveva fare il suo dovere.
Guardai il lato positivo delle cose: la casa era tutte per me! Potevo fare quello che volevo sempre nei limiti consentiti.
Andai in soggiorno accesi lo stereo, aprii lo scompartimento dei CD, estrassi il mio CD preferito “Back In Black” degli AC/DC, alzai il volume quasi al massimo Selezionai la traccia numero due e premetti “Play”.
Andai in cucina. Presi dal cassetto della mobilia il libro delle ricette di mia madre, avevo una voglia matta di una torta. Lo sfogliai e trovai quello che cercavo “Torta allo yogurt” una mie preferite con una ricetta molto semplice e si eseguiva in pochi minuti.
A tempo di musica presi tutti gli ingredienti necessari: farina, uova, zucchero, lievito, olio di semi e yogurt.
Preparai l’imposto con molta accuratezza, versai la farina con le uova in una ciotola di plastica, poi misi l’olio di semi, yogurt e infine il lievito.
Mescolai bene, per fare un buon impasto. All’improvviso la mia attenzione fu distolta dallo squillo del telefono. Corsi subito in soggiorno per abbassare la musica, appoggiai la ciotola sul mobiletto e risposi: “Pronto, qui casa Winwolf”, dissi con tono cordiale. Si sentì un silenzio di tomba. Sentivo solo il fruscio dell’aria e un respiro lento e calmo. Attesi ancora pochi secondi, ero decisa a riattaccare.
Nel momento stesso in cui stavo per mettere giù la cornetta, sentii una voce: “Sei pronta?”, era una voce maschile, dolce, passionale. “Pronta per cosa?”, dissi tra me.
Ci fu un’altra pausa, ascoltai meglio. Recepii, un respiro accelerato e affannoso. Non capii che stava succedendo. Non capivo proprio, una voce maschile che diceva: “Sei pronta?”, un respiro affannoso e delle pause a cavallo di 1 minuto. Che stava succedendo?
La voce maschile riprese a parlare: “Stai tranquilla non ti succederà niente”, disse con tono gentile e sensuale. Avevo capito una cosa non stava parlando con me.
Il respiro che sentivo affannoso, si fece più veloce. Che stava succedendo dall’altro capo del filo? Che c’entravo io?
Ad un tratto, sentii una voce femminile: “No!”, disse con molta paura. Un suono agghiacciante di ossa rotte rimbombò nella mia testa. Decisi di intervenire.
“Chi sei, che cosa vuoi da me?”, dissi con un velo di rabbia.
Sentii la ragazza che piangeva e un silenzio che metteva i brividi. Che cosa potevo fare? Niente proprio niente! Mi sentivo terribilmente inutile.
“Non ti preoccupare, poi arriverà anche il tuo turno”, disse di nuovo la voce maschile. All’improvviso un grido lacerante fece eco nella mia testa. Il ragazzo si stava eccitando, mi non capii per cosa. Percepii un rumore strano, come delle gocce che si stavano infrangendo nel terreno.
Ascoltai attentamente, ma non percepii più quel suono.
Stavo per parlare quando improvvisamente cadde la linea.
 
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-lupetta-
view post Posted on 16/6/2012, 22:22




molto carino ^^ quando metterai il capitolo 3 ?
 
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Winwolf_93
view post Posted on 17/6/2012, 16:02




CAPITOLO 3




Rimasi immobile, con la cornetta in mano, lo sguardo perso nel vuoto. Come paralizzata. Mi sentivo persa, quasi arrivata a un punto di non ritorno. Come se avessi imboccato un tunnel senza uscita. Precipitata in una voragine da cui non potevo risalire. Provavo una tale tristezza, che una lacrima percorse il profilo della guancia e cadde sul legno marroncino.
Sentii una fitta al cuore come se qualcuno l’avesse perforato. Un senso di colpa mi invase, riposi la cornetta e mi lasciai cadere dolcemente a terra, un’altra lacrima percorse la guancia.
Come una freccia scoccata da un arciere, trapassò la mia mente, da parte a parte: l’urlo della ragazza, lo scricchiolio delle ossa e la voce maschile dolce e passionale. Scoppiai in lacrime, mi strinsi alle ginocchia. Mi sentivo una perfetta persona inutile.
Io ero lì, ma non potevo fare nulla! Proprio nulla!
Auto rimproverai me stessa, capii che non serviva a niente, mi stavo comportando da idiota. Dovevo stare calma e non pensarci troppo. Era successo e non per causa mia. Quindi, non dovevo preoccuparmi.
Mi alzai, asciugai le lacrime dal mio viso. Presi la ciotola con l’impasto, lo mescolai e andai verso il soggiorno.
Rimisi la musica, che mi sollevò il morale.
Mi spostai in cucina, estrassi dal mobiletto la tortiera in acciaio, presi il burro dal frigorifero e lo spalmai su di essa. In infine versai una piccola dose di farina e la sparsi all’interno.
Afferrai la ciotola e rovesciai il contenuto. La riposi nel forno, a 180° gradi. Mi lavai le mani.
Riposi tutti gli ingredienti al loro posto, diedi una pulita al tavolo.
Guardai l’orologio a pendolo appeso al muro, al centro della cucina, in legno pregiato appartenente al mio bisnonno.
L’aveva fatto lui, come regalo di matrimonio per i miei genitori. Si vedevano nettamente le venature del legno, era stato fatto con molta accuratezza e precisione. La sua forma richiamava quella di un’aquila.
Sognava esattamente le 15.30. In un quarto d’ora la torta si sarebbe cotta. Pensai a cosa fare in quell’asso di tempo.
Mi venne un lampo di genio, corsi in camera mia. Era una totale rovina, c’erano: CD, libri, album, dischi, matite, vestiti dappertutto.
Ci voleva una bella riordinata. Impilai tutti i CD da una parte e i libri dell’altra. Trovai il mio libro preferito che cercavo da un’eternità: Uno studio in rosso, letto esattamente 15 volte.
Passai a riordinare i vestiti, separai quelli puliti da quelli sporchi. Quelli puliti li gettai sul letto con accuratezza. Andai in bagno con quelli sporchi li riposi nell’apposito cesto della biancheria.
Ritornai in camera, riordinai le matite e le penne; i libri gli avrei sistemati più tardi.
Pensai ancora alla telefonata che avevo ricevuto prima, ed esaminai un solo aspetto. La frase: Non ti preoccupare, poi arriverà anche il tuo turno.
Intendeva che dopo, accadeva anche a me? Mi sorse un punto di domanda: come faceva a conoscermi? Come faceva a sapere il mio numero di telefono? E soprattutto, che cosa c’entravo io, con tutta questa storia?
Non trovai una sola risposta a tutte le mie domande.
Un odore di torta cotta al punto giusto, si disperse per tutta la camera. Lo assaporai e automaticamente mi precipitai giù per le scale.
Aprii il forno e annusai di nuovo (quell’odore era troppo buono). Il profumo mi rese soddisfatta di me stessa.
La sfilai dalla tortiera, l’appoggiai all’interno del piatto di ceramica.
Presi la tortiera con la ciotola, ci versai dell’acqua e le riposi nel lavandino.
Di nuovo la domanda che mi tormentava: Perché aveva telefonato proprio a me?
Tra tutte le persone che vivono a Vancouver, proprio me doveva beccare?
Suonò il campanello di casa, i miei pensieri si dissolsero in una nuvola di polvere. Mi voltai di scatto verso la porta, con gli occhi fissi su di essa. Appoggiai delicatamente sul tavolo quello che avevo in mano.
L’agitazione prese il controllo, il respiro si fece più affannoso, il cuore andò a mille e gli eventi di 10 muniti fa, riaffiorarono.
Con gli occhi fissi sulla porta, percorsi il lungo corridoio che portava a essa, a passi lenti e silenziosi. Spensi la musica.
Mille pensieri percorsero la mia mente. Ero talmente scossa che il mio corpo si irrigidì senza un mio comando.
Arrivai alla porta, agguantai la maniglia. Avevo il timore di aprirla. Eppure dovevo, chiunque si fosse presentato davanti a me.
Gli istanti passavano e il campanello suonò per la seconda volta. La mano ferma, braccio in completa tensione, occhi sbarrati e puntati dritti a chiunque si fosse presentato davanti a me.
Piano e in modo lento, girai la maniglia che scricchiolò. Il silenzio più totale si fece in tutta la casa.
Aprii la porta, talmente veloce che Ilary si prese un gran spavento.
“Ah, sei tu!”, dissi sbalordita. Tirai un sospiro di sollievo. Tutti i pensieri che mi tormentavano cinque secondi fa, di colpo svanirono.
“Perché ci hai messo tanto?”, mi studiò attentamente, da capo a piede.
Il suo sguardo si concentrò su un punto fisso, il mio braccio destro. Cercò di capire, qualcosa che non li quadrava: “Che cosa hai fatto al braccio?”, mi accorsi che era in tensione, lo rilassai subito.
“Niente.”, lo nascosi dietro la schiena.
Lo sapevo. Non dovevo mettere la maglietta aderente, risaltava troppo la mia muscolatura.
Da una parte odiavo essere un licantropo, ma dall’altro lo adoravo.
Il fatto è che quando sono a contatto con molta gente, devo restare più normale e umana possibile. Anche Manuel e Mattia avevano notato più volte la mia piccola differenza dalla gente comune. Già una volta era successo, ci era mancata poco. Tanto così. Non volevo che si ripetesse. Perché sarebbe stata la mia rovina.
Era partito tutto da quella volta che non cacciavo da due settimane. Non sapevo per quale motivo non cacciavo, ma chissà perché non ne avevo assoluta necessità in quel periodo. E questo ha condizionato molto il mio aspetto fisico. Specialmente i miei occhi.
E’ stata l’affermazione di Ilary, a farmi rendere conto di quello che non andava.
“Katie, per caso sei diventata un demone?”, lei era molto appassionata della serie televisiva di Supernatural (come me del resto). Io risposi: “No. Ma ti pare, i demoni non esistono. E perché dovrei essere diventata un demone. Per caso Supernatural, ti ha dato alla testa?”. Era letteralmente diventata matta da quando l’aveva scoperto e non faceva altro che parlarne, quasi tutti i giorni. Ogni volta che trasmettevano una puntata lei andava letteralmente in delirio.
Lei continuò a fissarmi. “E mi spieghi perché hai gli occhi neri. Ti sei messa le lenti a contatto. Dato che quest’anno vanno di moda le creature soprannaturali, vedi tutti i film e libri che sono usciti”.
Partendo dal presupposto che io sono mezza licantropo e mezza vampira, è normale. Ma non riuscivo a capire perché, la mia colorazione variava. Cioè io dovrei avere gli occhi dorati, come tutti i licantropi che si rispettino. Nero, non l’avevo mai sentito. Vedi mia madre, occhi azzurri, non avevo mai visto lei con gli occhi neri.
Probabilmente questo era dovuto dal fatto che sono una meticcia. In me, prevaleva di più la metà licantropesca e non quella vampiresca. La mia metà vampiresca è sepolta da qualche parte. Non mi piaceva l’idea di essere un mostro sanguinario, che si nutriva di sangue umano, l’idea mi metteva i brividi. Preferivo di gran lunga la mia metà licantropo, molto più divertente e affascinante.
Ilary mi stava fissando, era ancora sulla soglia della porta. Ed io, invece che dirle di entrare, ero lì imbambolata a pensare ad altro.
“Entra pure, ho appena finito di fare pulizie”, fece un passo, lento e insicuro; si guardò intorno come se vedesse per la prima volta la mia casa. Intanto che mi dirigevo verso la cucina, la osservai.
Studiò ogni singolo dettaglio: il mobiletto in legno del tardo 1600, lo specchio con la cornice in argento del 1845.
Se dovevo dire la verità, Ilary non era venuta moltissime volte a casa mia (probabilmente perché ero sempre andata io da lei), forse era la seconda o terza volta che ci metteva piede.
Continuò a osservare ogni singolo dettaglio. Si voltò verso destra, rimase sbalordita per un istante di fronte a un quadro di un lupo, che occupava quasi tutto il muro.
“L’ultima volta che ero venuta”, e chi ricordava quand’era venuta, “la casa era diversa”.
Sì, aveva ragione. Chissà perché mia madre le piaceva rinnovare ogni mese la casa. (una volta doveva assolutamente spiegarmela), apparte che era lei che lo faceva. Quindi io e mio padre ci limitavamo a lasciarla fare.
“Si, abbiamo cambiato un po’ di cose. A mia madre non piace, vedere sempre le stesse cose. Le piace rinnovare ogni tanto”, mi guardò con un’espressione indecifrabile.
“E perché dovrebbe rinnovare, non è abbastanza bella questa casa. Con tutti questi: mobili, quadri, e oggetti vari di antiquariato”, continuò a guardarsi intorno.
“Sinceramente non lo so neanche io. Poiché alcuni mobili e oggetti vari ci arrivano dalla nostra famiglia. Dobbiamo pur metterli da qualche parte”.
Non fece commenti.
“Vuoi un pezzo di torta, appena sfornata?”. Fece cenno di sì. La presi in parola. Presi il coltello, con molta delicatezza e precisione. Affondai il coltello, nella tenera, morbida a profumata, torta. Con lentezza, trasportai il pezzo nel tovagliolo, che avevo preparato precedentemente.
Lei avanzò di tre passi, prese la sedia e si sedette.
Le presi il giubbotto di pelle e la borsetta che aveva appoggiato sulla sua sedia. E li riposi sull’appendiabiti, nel corridoio.
“Buona, molto buona”, disse allegra. Ma non sembrava molto contenta come lo dimostrava.
Se la gustò morso per morso.
“Grazie”, commentai.
Corrugai la fronte, perché mi sorse un punto di domanda: “Come mai. Sei venuta a trovarmi?”, smise subito di mangiare, si pulì la bocca e rispose: “Siccome non sapevo che cosa fare, questo pomeriggio, ho pensato di fare un salto da te. Perché non sei contenta?”, lo disse in modo così persuasivo che non potei protestare: “No, no. Non mi dispiace affatto. Anzi. Sono contenta che sei venuta a trovarmi”, non c’era risposta migliore di questa, per accontentarla. Chissà da dove veniva tutta quella tristezza, di prima.
Con un ultimo morso, finì il pezzo di torta.
“Ne vuoi ancora?”, le domandai.
“No, no. Grazie”, disse cortesemente. Sospirò. “Che cosa stavi facendo, prima che io ti interrompessi?”, era sempre stata curiosa su quello che facevo il pomeriggio.
Appoggiai i gomiti sul tavolo. “Ho riordinato la mia camera e avevo intenzione di cominciare la ricerca di geografia”.
Con uno sguardo di sfida, appoggiò con un botto il gomito del braccio destro e la mano come se volesse che gliela prendessi. Il braccio era parallelo alla spalla.
Studiai la posizione, del suo braccio. Non capii che cosa voleva. Come un flash, il fotogramma dell’angolo del suo braccio mi fece pensare al film “Over the top”, non sapevo perché mi era venuto in mente in quel momento.
“NO!”, dissi con tono di imbarazzo “non voglio assolutamente farlo”, anche se la mia parte di licantropo mi dava l’impulso di afferrare la sua mano.
Di nuovo con aria di sfida disse: “Hai paura?”, mi stava provocando.
Sentivo le guance bollire. Era una situazione molto, ma molto imbarazzante. Non volevo assolutamente farlo. Primo, perché non volevo mettermi in mostra. Secondo, perché avrei demolito il tavolo a cui mia madre teneva tanto. Terzo, perché se non fossi stata attenta avrei mandato Ilary all’ospedale; con un braccio fratturato (e dopo trovala tu, la scusa per spiegare l’accaduto).
“Se ti dico di, NO. E’ NO. Punto e basta”, mi sentivo ancora più imbarazzata, quando contrasse il bicipite.
“Hai paura di perdere?”, disse in tono di provocazione.
“Non ho assolutamente, paura di perdere!”, dissi. Con tono tra la rabbia e persuasione.
La sua espressione sembrava che mi dicesse “Fatti sotto, allora”. Non voleva proprio capire.
Intrecciai, la mia mano alla sua. Pensava veramente che l’avrei fatto ma si sbagliava. Con una piccola rotazione del mio braccio e con la minima forza possibile, feci sbattere il suo braccio con il tavolo. Rimase impressionata.
Probabilmente aveva capito che non poteva competere con me.
“Come hai fatto? Che sei stata in palestra con Manuel per caso?”, non ci credeva ancora.
Mi alzai dalla sedia, per prendere una bottiglia di The alla pesca dal frigo.
Io in palestra con Manuel, da quando. Da dove gli era venuta quest’idea. Anche se Manuel mi aveva chiesto più volte se gli andava che lo accompagnassi.
Presi i bicchieri in vetro blu, li appoggiai sul tavolo e accanto ci misi la bottiglia.
“Ma ti pare che io: Katie Winwolf, vada - in - palestra - con Manuel Mackenzie?”, era una cosa molto, ma molto improbabile.
“Non lo so. Magari …”. Non doveva aggiungere altro.
Versai il The, nei due bicchieri e gliene offrii uno, per zittirla. Ilary diventa un po’ fastidiosa, quando comincia certi argomenti. Trasalii.
“Allora, che facciamo di bello?”, cambiai decisamente argomento. Non mi andava di discutere.
Appoggiò il bicchiere. “Una partita a carte ti va? Tanto so che ti batterò, come al solito”, disse con una smorfia.
“Però l’ultima volta, ti ho battuto”, precisai. Sorrise. “Sì, su quante volte, 15 forse”.
Ok. La sconfitta mi bruciava. Ma non era una partita a carte, persa. Che mi cambiava la vita.
Andai in soggiorno, presi il mazzo di carte estratto dal cassetto della mobilia in legno massiccio.
Ritornai in cucina, appoggiai il mazzo sul tavolo, spostai: torta, bottiglia e il mio bicchiere da una parte.
Iniziai a mescolare le carte. “Voglio proprio vedere se ti batto oggi”, affermai.
“Staremo a vedere”, affermò anche lei.
Finite di mescolare le carte, ne distribuii 13 a ciascuna.
Le presi, diedi un’occhiata. Le misi in ordine.
Ilary invece con mio stupore, le stava sistemando con molta lentezza. La sua espressione divenne di nuovo triste. Quattro secondi fa, era felice e adesso è triste. Non capivo che cosa aveva.
Mi fece passare la voglia di giocare. Posai le carte sul tavolo e intuii una cosa.
“Tu non sei venuta, per passare un pomeriggio divertente con me”, la mia affermazione non la colse affatto impreparata. La guardai in modo sospettoso. Nascondeva qualcosa, qualcosa che dovevo sapere, sapere subito.
Si mise le mani nei capelli (non l’avevo mai vista così), in segno di disperazione. Dai suoi occhi trasparì la paura, l’incertezza e lo sconforto. Si passò un’altra volta le mani nei capelli.
Provai a pensare, a che cosa passasse per la sua testa, tanti erano i pensieri e non capivo perché tutti si collegavano alla telefonata.
Respirò, due volte per calmarsi. Il suo cuore, batteva all’impazzata e le sue mani erano talmente tese che sembravano incollate al tavolo. Attesi ancora qualche istante, prima che si calmasse.
Mi alzai, per prenderli un bicchiere d’acqua, anziché di The. Ma lei sbattè la mano sul tavolo, io non mi mossi di un millimetro.
Non sapeva da dove cominciare, per dirmi quello che dove dirmi. Ma ci provò. “Ti conoscevi, Emy?”, appena pronunciò il nome della ragazza, un brivido la percorse.
“Si, perché?”, improvvisamente l’urlo lacerante della ragazza, rieccheggiò nel mio cervello.
“Oggi, è …”, non aveva il coraggio di pronunciare le parole, che intuii.
Fece un altro respiro profondo. “… è stata trovata uccisa”, la parola uccisa, la pronunciò con tale attenzione che un altro brivido la percorse.
La mia reazione, fu lettermente istintiva. “Cosa? E’ stata uccisa? Quando? Dove?”, caddi in preda al panico, non capii più nulla. Come poteva essere stata uccisa. Ma probabilmente la risposta la sapevo già.
Con molta calma, rispose alla mia domanda: “Dopo essere rientrata a casa, da scuola”.
Come a casa sua? E dov’erano i suoi genitori. Sapevo che sua madre faceva la casalinga e suo padre rientra quando lei torna da scuola. Come è stato possibile.
Non sapevo che cosa era peggio, essere arrabbiati a tal punto di esplodere o crollare in preda alla disperazione.
“E non si sa perché è morta? Scusa, ma suo padre non rientra alla stessa ora che rientra lei. E sua madre …”, forse la mia domanda era banale. Ma mi interessava sapere qualche dettaglio in più, magari poteva essere collegato alla telefonata.
Mi guardò, in modo così spaventato che non seppe rispondere.
Emy, la ragazza che era davanti a me, questa mattina in mensa. La ragazza che stava per fare la maturità, la ragazza che aveva tanti progetti. In questi anni stava lavorando ad un progetto per aiutare i bambini del “Corno d’Africa”, la zona che è stata colpita da una gravissima carestia.
Era un modello per tutti: simpatica, solare, solidale, altruista. Sempre disponibile agli altri. Una vita infranta per sempre. Soprattutto per suo padre, che l’aveva sempre sostenuta in tutti i suoi obiettivi. Si era molto interessata a diventare medico, dopo aver conseguito. A lei piaceva aiutare le persone, soprattutto. Voleva attuare il progetto che aveva in mente.
Non ci potevo credere, chi avevo intenzione ad ucciderla?
Ilary, mi guardò. Mentre facevo i miei ragionamenti. Una piccola lacrima le percorse il viso.
“Secondo suo padre, il capo della polizia”, lo pronunciò con molta precisione, per il fatto della sua reputazione, “ha detto che non ne sanno il motivo, non sanno come è stata uccisa. Non hanno trovato nessuna traccia, riconducibile alla scena del crimine”.
Questo particolare, non sapevo perché, mi fece arrabbiare così tanto. Stinsi i denti per contenermi.
Mi alzai, in piedi. “Ilary, forse è meglio che vai. Tra poco arrivano i miei. E non vorrei he ti trovassero qua”, avrei avuto il timore che mi sarei trasformata. Non volevo che accaddesse, non volevo che la mia migliore amica fosse coinvolta.
 
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-lupetta-
view post Posted on 17/6/2012, 18:31




O-o è mezza vampira e chi se lo aspettava xD Adesso vorrei sapere chi dei genitori è chi xD penso che la madre sia una vampira :D
Mi piace come scrivi,aspetto il continuo :D
 
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Winwolf_93
view post Posted on 18/6/2012, 13:31




CAPITOLO 4



Una cosa l’avevo capita, Emy era morta e non si sapeva come.
Ma la domanda era Perché?
Non credevo che la sua uccissione, sia stata occasionale. Forse ci poteva essere un collegamento, con le altre sparizioni. Indubbiamente c’era. Bastava trovare l’elemento che accomunava tutto e forse, una persona mi avrebbe dato una mano.
Dal mobiletto in corridoio, presi l’agenda con tutti i numeri di telefono. La sua copertina era vecchia di secoli, in pelle. La aprii. Una sfilza di numeri con i rispettivi cognomi si presentarono davanti a me. Cercai subito nell’elenco, sotto la lettera “O”, sfogliai velocemente le pagine.
Con il dito cercai il cognome che mi interessava.
“Un elenco meno lungo non esisteva?!”, dissi tra me.
Doveva essere vicino, avevo passato 16 cognomi, dove essere per forza fra gli ultimi.
Arrivai alla fine, passai gli ultimi quattro.
“Finalmente!!”, esclamai a gran voce. Era l’ultimo, di una lunga serie.
“O’Connor Denis”, la sola persona su cui potevo contare.
Composi il numero e attesi che rispondesse.
Denis O’Connor, un ragazzo di 19 anni: occhi color nocciola, capelli marroni e un umorismo che pochi avevono. Lavorava nella segheria della città, ma si occupava anche di altre; come ad esempio informazioni molto importanti, sapevo tutto di tutti. E lui di sicuro, sapeva benissimo delle informazioni, che mi interessavano.
Per la quarta volta suonò il telefono, solitamente rispondeva subito. Attesi ancora qualche istante.
“Pronto?!”, disse con un filo di voce che gli era rimasto.
“Ciao, Denis! Sono Katie”, c’era uno strano rumore di sottofondo.
“Ciao! Katie! Da quanto è che non ci sentiamo? Come stai?”. Era veramente entusiasta di sentirmi.
“Benissimo!”, volevo chiederlo al più presto, se no me ne sarei dimenticata subito.
“Ascolta, dove chiederti una cosa, che penso tu ne sia già a conoscenza”.
“Si, dimmi pure. Sono sempre disponibile. Di che cosa si tratta?”. Sapevo che lui sarebbe stato disposto ad ascoltarmi.
“Tu sai chi è morto oggi, vero? Ma penso che tu lo sappia già. Quindi volevo chiederti, se sapevi qualche dettaglio in più”. Sentii ancora quel rumore di sottofondo, assomigliava ad un ronzio di una zanzara in cerca di sangue per nutrirsi.
“Si, l’ho saputo”, lo disse con tale amarezza, che mi sentii triste. “E mi dispiace molto. Si, sono a conoscenza di alcuni dettagli, abbastanza importanti”.
“Ci scomettevo!”, questa era una buona notizia. Volevo sapere cosa era veramente accaduto.
“Quando e dove ci incontriamo”, mi venne da ridere. Mi sembra di essere protagonista di un film di spianaggio.
Sentii, dei passi provenienti dalla scale.
“Incontriamoci…”, gli chiusi la cornetta in faccia. Era arrivata mia madre. Appena chiuse la porta, il suo viso assunse un’espressione indecifrabile.
“Katie è stato qualcuno a casa?”, mia madre fiutava qualsiasi odore. Mentirle non era un’opzione.
“Si è stata qui Ilary”, non sapevo se informare anche lei. Di sicuro aveva notato che chiamavo Denis, quindi dedussi che lo sapeva.
“Ha chi hai telefonato?”.
Non risposi.
“Secondo me, hai telefonato a Denis O’Connor”, pronunciò nome e cognome con tale precisione, che nessun essere umano sarabbe stato capace. “Scommento che lo hai chiamato, per l’omicidio di Emy”. Ecco, a mia madre non si poteva proprio nascondere niente.
Non fiatai, sapave già la risposta.
Cambiò argomento. “Che cosa è venuta a fare, Ilary?”, pronunciò di nuovo con precisione il suo nome.
“Era venuta per darmi la notazia di Emy”, notò la torta. Sorrise.
“Tu hai telefonato a Denis, per sapere qualche dettaglio in più sulla sua uccissione. Per il semplice fatto che non si sa come è stata uccisa”, precisa e puntuale come sempre, a mia madre non sfuggiva proprio nulla.
Dovetti fare cenno di sì. Aveva fatto letteralmente centro.
Si stava avvicinnando alla torta, stava per per prendere il coltello. La anticipai di mezzo secondo e lo presi prima di lei.
“Guarda che sono perfettamete capace di servirmi da sola”, protestò.
Ritirai subito la mano e le cedetti il coltello, alle sue: morbide, calde e perfette mani.
Tagliò con assoluta precisione, la torta. Le diede un morso.
“Quindi, è morta Emy. Povera ragazza, non oso pensare a come si sentiranno i suoi genitori, specialmente suo padre”, anche lei come me era rimasta sconvolta.
Ed ecco, il mio pensiero ritornva su quella telefonata.
“Secondo te, la serie di sparzioni e l’uccisione di Emy, sono fatti che hanno un collegamento?”. La mia domanda era abbastanza logica.
Finì di mangiare.
Il suo sguardo si perse nel vuoto, riflettè. “A giudicare, dagli eventi: due sparizioni nell’arco di due settimane e un uccisione…”, lasciò la frase a metà. Ci riflettè ancora per un istante, “… potrebbe esserci un collegamento logico. Ci protrebbero essere varie ipotesi, come ad esempio: un killer incontrollabile. Ma secondo me, non è uno solo”, questa affermazione mi fece pensare a qualcosa come degli psicopatici che uccidono o rapiscono le ragazze, rabbrividii all’idea.
“Perché non sarebbe un solo killer?”.
Esitò per un’istante.
“Prima di tutto, sono state uccise due ragazze che non hanno niente in comune. Sono state uccise in giorni diversi, a cavallo di due settimane”, il suo ragionamente non faceva una piega, “Se noi pensiamo ai tre luoghi dove sono sparite le 2 ragazze e dove è stata uccisa Emy”, prese il coltello e tre bicchieri. Li posizionò in modo da formare un triangolo.
“Allora, questo è il punto in cui è sparita la prima ragazza, che si trova alle porte della città; la seconda sparizione è avvenuta sul lato ovest e l’uccisione di Emy nel alto est e questo. Crea un triangolo”, era un ragionamento plausibile. Su cui non avevo domande.
“Quindi, il killer o i killer hanno agito in posti diversi ma coordinati fra loro?”, domandai perplessa. Pensare che si aggiravano più di un killer in città, mi metteva i brividi.
“Esatto. Ma il problema sta nel: perché due sparizioni e un uccisione? Non ha una logica, che una persona posso dire: faccio sparire due corpi e il terzo lo lascio sul luogo del delitto. Non ha letteralmente senso! Perché lasciare una terza vittima, per di più la polizia non ha trovato nessun indizio. Un altro punto ineressante è che le tre vittime erano tutte ragazze che si aggirano tra i 17 e 19 anni, anche la scelta dell’età non è stata azzardata”, smettè subito di parlare perché qualcosa la turbava.
Fissava il coltello d’acciaio con cui giocherellava. Lo scrutò in tutti i minimi dettagli.
Mi domandai quali pensieri la attraversarono.
Cambiai, argomento: “Come ha reagito, papà alla notizia del giornale?”. Non distaccò gli occhi dalla lama seghettata, se la girò e rigirò. Mi ignorò, non mi stava ascoltando era assolta completamente nella sua mente.
Feci per alzarmi, quando uno stridio di metallo ridotto in frantumi, mi scosse.
Con voce calma, vellutata e perfetta, disse: “Hai mai pensato di avere un ragazzo?”.
Rimasi innoridita di fronte a quella domanda.
L’unica cosa che mi faceva rabbrividire era la parola “ragazzo”, una parola che non potevo sentire.
Sinceramente, non avevo mai pensato ad avere “ragazzo”, non sopportavo quella parola.
Era un argomento molto, ma molto delicato.
“No. E non ci voglio pensare”, dissi con voce pacata.
Lei mi guardò con quel suo sguardo che ti ipnotizzava, con i suoi occhi azzurro magnetico.
Mia madre sarebbe stata, di sicuro felice se ne avessi trovato uno. Le avrei dato una grande gioia. Come a tutti i genitori, del resto. Ma per me era l’ultimo delle mie preoccupazioni.
Però, avrei promesso a me stessa che ne avrei trovato una dopo aver finito il 5° anno (nel caso in cui fosse successo prima, l’avrei accettato lo stesso).
Mi fissava, ancora. “Secondo me, c’è già qualcuno.”
“Che stai insinuando mamma?”, non c’era nessuno, prorpio nessuno (mentii a me stessa), sapevo benissimo di chi mi ero innamorata.
“Ricky Russel”, affermò.
Rimasi impietrita di fronte alla sue parole. Mi sentivo calda, più del solito. Il mio viso stava andando a fuoco, sembrava che avessi la febbre. Non riuscivo a respirare.
Nella mia mente si materializzò: la sua faccia, i suoi occhi, i suoi capelli e il suo sorriso. Il suo corpo perfetto, capelli a spazzola. Me lo ero immagino in molte occassioni, ma quella era diversa dalle altre. Ci sognavo. Una volta avevo sognato di lui che aveva scoperto quello che ero, avevo anche sognato che mi baciava. Emanava una luce diversa dagli altri ragazzi, era qualcosa di speciale come se lui fosse il centro del mio universo. Ma era un sogno, solo ed un unico sogno.
“Guarda che lo so. Non credere che non me ne sia accorta”.
Di colpo la sua immagine sfanì in un’istante. Ripresi, la cognizione del tempo. Era come se mi fossi appena svegliata da un bellissimo sogno. Misi a fuoco quello che c’era di fronte a me.
La faccia di mia madre, mi portò a come mi sentivo qualche minuto fa.
Ok, aveva ragione. Ma questo non significava proprio nulla.
“Non negare l’evidenza. Ce l’hai scritto in faccia”, non ci voleva un genio per intuire che ero innamorata di Ricky. Il primo ragazzo per cui avevo provato questo genere di sentimento.
“Ok”, ammisi. “Ma non hai calcolato una cosa”, la colsi di sorpresa.
“E cosa?”, domandò incuriosita.
“Ammettiamo per un momento, che io sia la sua ragazza”, rabbrividii all’idea. “dovrei raccontarli il mio piccolo segreto?”.
Ci guardammo.
“Non necessariamente, dovresti dirglielo”. Mi aspettavo una risposta diversa.
Contrabattei. “E come dovrei spiegarli: del mio aspetto fisico e dei miei occhi?”, volevo proprio arrivare a questo punto della discussione.
Ci riflettè. “Potresti dirli che sei nata così”.
“Non mi sembra una risposta, plausibile. Dai, mamma. Lo si vede lontano un chilometro che nascondo qualcosa. E credo che lui sia così stupido da crederci”, rimasi un istante senza fiato. “No. Ma ti sembra una cosa normale che una ragazza sia così, non lo credo”, mi guardò come per dire “E ci posso fare io”.
“Non sono mica io che ho deciso di farti nascere così”, ribattè. E in questo aveva ragione.
“Era meglio che non nascevo, se la mettiamo su questo punto. Avrei capito se fossi stata un ragazzo, ma una ragazza! Insomma, non posso avere una vita normale come tutte le persone che vivono su questa terra!”. Dovevo precisare un altro punto.
Neanche il tempo di aprire bocca, quando sentii la porta d’entrata aprirsi. Era mio padre.
“Chi non vorrebbe essere nato?”, urlò dal corridoio.
Ci mancava che ci si mettesse anche lui, in questa discussione.
Con una camminata molto sexy, si diresse verso di me. Mise le mani sulla sedia e mi guardò.
“Io, non dovrei essere mai nata!”, dissi con tono arrabbiato. Guardò, la mia espessione con stupore.
“E perché no?”, domandò. Mi aspettavo che fosse infuriato come un grizzly disturbato mentre dormiva. Invece, sereno e comprensivo.
Che casa l’aveva cambiato?
“Mamma, spiegaglielo tu”, mi assecondò.
“Tua figlia, non è soddisfatta di quello che è. Lei vorrebbe vivere una vita normale come tutte le ragazze della sua età. Invece di passare la sua esistenza con il timore di essere scoperta per quello che è”. Spiegò la situazione in modo semplice e mirato dritto al punto, senza giri di parole.
“Dunque, questo è problema? Non mi sembra una cosa così grave”. Secondo me, non gli importava.
“Invece, è grave!”, protestai. “Tu non capisci quanto è grave! Non posso avere una vita normale, per il semplice fatto che sono un licatropo! Una ragazza con una muscolatura sviluppata più del solito!”, tirai fiato. Avevo scaricato tutta la mia rabbia e disperazione contro di lui.
Mi aspettai, che mi prendesse per i capelli e mi trascinasse per il corridoio. Invece, con mia grande sorpresa era rimasto sereno.
“Lo so, che è dura per te. Ma così è la vita”, mi guardò da capo a piede, “ma non mi sembra, che tu abbia questo grave problema della muscolatura”.
Le sue ultime parole, mi fecero arrabbiare così tanto. Ma così tanto, che tesi tutti i muscoli.
“E così, ti sembra che non ne abbia! Anche Ilary se ne è accorta. Ha voluto persino fare a braccio di ferro! Quindi non dirmi che non si nota!”, feci una breve pausa.
Mi calmai, perché era inutile scaldarsi. Passai al monologo: “Ogni volta che mi guardo allo specchio, mi chiedo perché sono nata così. Ma poi ci rifletto, non è ne colpa mia, ne colpa vostra. Che essere un licantropo ha i suoi pregi e i suoi difetti. E devo accertarmi per quello che sono”.
Il mio discorso gli impetrì. Assomigliavano a due statue scolpite nel marmo. Mi veniva quasi da piangere.
Mio padre si avvicinò, mi abbracciò e mi cullò.
“Non ti preoccupare”, sussurò. “tu sei la mia bambina. Non importa come sei fatta fisicamente o emotivamente. Ma io ti ricorderò come la mia lupacchiotta ribelle”, mi confortò con le sue parole fecero un effetto strano, nella mia sfera emotiva.
Aveva ragione, non dovevo preoccuparmi di queste cose. Perché c’erano questioni più peggiori. E non era il mio aspetto fisico, che mi cambiava la vita.
Sciolsi l’abbraccio. “Grazie, papà”.
Ero molto legata a lui più di mia madre. Ricordo ancora, quando mi portava sulla scogliera ad osservare: le balene, il mare con le sue onde, i gabbiani che volavano sopra il pelo dell’acqua e l’aria salmastra che ci accarezzava (ricordo che mi rimmarrano impressi, nella mia vita per sempre).
Mia madre non disse una parola.
“Passiamo a cose più serie”, il suo tono divenne più autoritario.
Si sedette a capotavola e io di fianco a lui, con mia madre di fronte.
“Oggi ho fatto alcune ricerche sul puma che hai ucciso tu”. Sicuramente ero stata io a fare quel disastro.
“Lo so, sono stata io e me ne pento”, la mia voce uscì come se avessi confessato un crimine.
Si voltò verso di me. “Non esattamente”, precisò.
Come? Non ero stata io? Avevo di sicuro capito male.
Continuò a parlare, senza darmi importanza. “Abbiamo trovato, si delle tracce. Di un animale di grossa taglia. Ma si dirigevano verso sud e il puma è stato smembrato da qualcun altro, non da te. Abbiamo esaminato se l’animale di grossa taglia, aveva cacciato apposta il puma. Non è stato così …”, continuò il suo discorso. Da cui che era emerso che non stata io.
La dimanica dell’accaduto coincideva con quello che avevo fatto la sera precedente: ero andata a sud, ma non avevo incontrato nessun puma.
Il puma l’avevo incrociato sul confine con lo stato di Washington. E chi aveva ucciso e smembrato quel povero puma?
Interuppi mio padre nella sua spiegazione che stava facendo.
“E da chi è stato ucciso?”. Si voltò verso di me e disse: “Non ne sono sicuro. Ma sembra si tratti di umani, non umani qualunque”.
Umani? Che cosa significava questo? Che c’erano persone che si divertivano a smembrare puma?
“Ma, papà. In questa stagione si cacciano i puma…”, mi interuppe. “Questo lo so anche io, ma non è questa la questione”.
“E qual è la questione?”, intevenne mia madre.
Bene, la questione non era il problema della caccia. Quindi, il problema era quello delle traccie umane.
“La questione è: Perché abbiamo trovato delle traccie umane accanto alla carcassa del puma?”, questo mi incuriosiva.
Non credevo che delle persone si divertivano a cacciare e smembrare puma, questa cosa essomigliava a un rito voodoo.
Pensai a qualsiasi elemento, che ricoresse a qualche dettaglio. Ma non ricordai nulla. Non avevo notato nessuna presenza di umani.
Mio padre, continuò a spigare le sue teorie. Cioè, aveva trovata delle traccie umane, ma aveva detto che non erano umane. Intendeva, che si trattava di qualcosa di soprannaturale; qualcosa di misterioso o di oscuro?
Le uniche cose soprannaturali che conoscevo erano: i vampiri e i licantropi (telefilm apparte) e gli unici eravamo “noi tre”.
“Quindi si tratta di qualcosa di soprannaturale?”, domandai.
Intervenne, mia madre: “Potrebbe essere, dato che tuo padre ha detto si tratta di traccie tutt’altro che umane”.
“Potremmo supporre che si tratti di vampiri”, proposi.
“Molto interessante. Se fossero stati dei vampiri, me ne sarei accorto”, disse mio padre con un velo di sarcarsmo, mentre preparava la cena.
“Mettiamo il caso che avrebbero cancellato le loro traccie”, non era un ragionamento sensato. “E avrebbero lasciato delle tracce e cancellato l’odore per disorientarvi e farvi capire che ero stata io”, conclusi.
Probabilmente, era stato così. Non c’era altra spiegazione.
Il silenzio più totale, si sentii in tutta la casa.
“Forse è meglio che vada a cominciare la ricerca di geografia”. Mi alzai e andai in camera.
Non avevo affatto voglia di farla, ma dovevo. Prima o poi. Cercai il libro, fra la catasta di libri scolastici. Lo aprii, diedi un’occhiata veloce ai vari stati. L’unico che mi ispirava in quel preciso momento era l’Italia.
Accesi il computer, dovevo solo cercare alcune informazioi che sul libro non c’erano e magari ci avrei inserito qualche immagine.
Cercai nel motore di ricerca, qualcosa di interessante.
Digitai, “Italia”. Una sfilza di di cose camparirono sullo schermo, che illuminava una parte della camera.
Cliccai, sul primo link. Lessi rapidamente. Copiai, le informazioni base, qualche cenno storico e la popolazione (lo feci in modo sbrigativo, mi sentivo stanca e volevo finire al più presto).
Andai a cercare i monumenti più importanti. Erano troppi, non ci stavano tutti. Ne scelsi una solo il “Colosseo”.
Assemblai tutto, ci aggiunsi informazioni estratte dal libro. Salvai il tutto, non avevo voglia di rileggerlo.
Lasciai il computer acceso e mi buttai sul letto. Chiusi gli occhi.


Mi svegliai.
Era avvolta dal buio nero.
Alla prima occhiata, non mi sembrava di essere in camera mia. Era tutto così buio, per capire quella che mi circondava.
Mi alzai, guardai sotto i miei piedi, li sentivo bagnati. Un rumore, di cascate si sentii provenire da destra.
Mi voltai, ma non c’era nulla. Sotto di me, stava scorrendo un ruscello.
Un urlo interuppe il silenzio. L’avevo già sentito.
Corsi il più veloce possibile. Sentivo i piedi che sembravano due pesi di piombo.
Anzai ancora. Mi fermai.
C’era una ragazza rannicchiata, su un prato tutto insaguinato. Aveva i capelli lunghi, ricci; di color nero come la notte. Indossava un abito bianco semplice. Mi avvicinai a fatica, lei non si mosse era ferma in quella posizione, mi fermai a pochi passi. I suoi occhi erano fissi per terra.
Era immobile. Osservai uno spiraglio di luce che proveniva dal cielo coperto di nubi nere. Su di lei risaltava il colore rosso del sangue.
Improvvisamente, si agitò un terremoto. La terra si scosse sotto i miei piedi, non sapevo cosa fare.
Come un flash, ricordai la vibrazione del mio cellulare, nella tasca del jeans.
Riaprii gli occhi. Ero tutta sudata, il cellulare vibrò ancora. Lo estrassi dalla tasca. Era, Manuel.
“Pronto?!”, dissi con uno sbadiglio.
“Katie! Devi venire subito!”, disse preoccupato. Aveva il respiro affannoso. Mi colse di sorpresa. Feci un balzo sul materasso. Pensai rapidamente, il mio cervello era ancora in fase di accensione.
“Calmati, Manuel. Che cosa è successo?”, mi sentivo ancora mezza addormentata.
Osservai, l’ora. Erano le 02.00. Il computer era ancora acceso e la sua luce riuscì a illuminare quel poco che poteva l’orologio appeso al muro.
Avevo dormito così tanto? E quel sogno, quell’incubo.
“Katie… Ilary… Ilary… è… è…”, sembrava un balbuzziente. “Ilary! E’ scomparsa!”, urlò. Era spaventato, il respiro era affannoso.
Di colpo il mio cervello, si accese come una lampadina. “Scomparsa!?”, esclami preoccupata. “Dove e quando?”. Non avevo coraggio, di pensare che cosa era successo.
“A casa sua, era rientrata alle 23.00, si era dimenticata la sua maglietta e sono venuto a riportagliela. Dio! Katie! Devi venire subito!”.
“Ok. Manuel, dammi due minuti e sarò subito da te”. Riattaccò.
Misi direttamente le scarpe. Mi precipitai per scale. Presi le chiavi della macchina.
“Mamma, devo andare a casa di Ilary. Manuel, mi ha chiamato. Ha detto che è scomparsa”.
Chiusi la porta, andai in garage. Salii in macchina e partii.


Ps. Grazie, mille!! Lupetta! Sono contenta che ti piaccia ;) anche se sto pensando che questo racconto è un pò fallimentare... e chissà per quale motivo, lo sto continuando a scrivere... mah.. probabilmente è una droga la scrittura, per me....

Ciao!!
 
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-lupetta-
view post Posted on 19/6/2012, 00:21




credevo che Katie fosse la prossima...vorrei proprio scoprire che sta succedendo ^^
p.s Mi piace leggere questa storia e non devi pensare che sia fallimentare ^^

Edited by -lupetta- - 30/8/2012, 04:58
 
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Winwolf_93
view post Posted on 19/6/2012, 19:24




CAPITOLO 5




Ma cosa stava succedendo? In questa dannata città?
Sparizioni! Uccissioni!
Non riuscivo a capire…
Perché uccidere?
Non avevo mai concepito questa cosa…
Ma poi… l’uccisione di Emy. La sparizione di Ilary!
Perché lei?
Perché di tutta questa maledetta storia?
C’erano troppi elementi che si accomunavano, troppe cose che si legavano assieme.
Tutto aveva una logica, non era casuale: tre sparizioni e un uccisione.
Le vittime erano tutte femmine tra i 17 e 19 anni. Tutte uccise e sparite a cavallo di due settimane. Tutte avevano capelli e occhi castani e tutte tra 1,70 e 1,75 metri di altezza. Chiunque fosse stato, aveva degli interessi comuni.
Il mio punto interrogativo che mi tormentava giorno e notte, era quella “telefonata”.
Che cosa aveva a che fare, con tutto questo?
Chiunque mi avesse telefonata, mi aveva minacciata di morte e fino adesso non mi era successo niente.
Questo mi faceva arrabbiare.
Affondai il piede dell’acceleratore.
Dovevo fare qualcosa, non potevo rimanere impalata come una statua a non fare niente.
Estrassi dalla tasca del jeans, il cellulare. Composi il numero che sapevo a memoria e attesi una risposta.
Come mi aspettavo, rispose la segreteria telefonica: “Sono Denis, lasciate un messaggio”.
“Denis, sono io. Troviamoci alla casa di Ilary. E’ urgente”. Chiusi la chiamata.
Da un momento all’altro avrei staccato il volante. Guardai lo specchio retrovisore. La rabbia, si refletteva sul mio viso e miei occhi.
Avevo intenzione di andare a cercare Ilary, ovunque si trovasse. Non mi sarei fermata davanti a niente e nessuno. Al solo pensiero che fosse stata rapita da un vampiro, mi faceva incazzare ancora di più.
Solitamente, il loro odore non mi dava fastidio. Ero abituata a quello di mia madre, che circa era simile. Quello di particolari elementi non lo sopportavo, il mio istinto non sbagliava mai.
Arrivai a casa Smith. Si trovava in una delle vie più lunghe della città e in quelle più verdi.
Parcheggiai nel piccolo posteggio al fianco sinistro, accanto alla Golf GT nera di Mattia.
Spensi la macchina.
Distesi i nervi. Respirai a fondo. Lasciai le mani scorrere sul volante e le lasciai cadere. Dovevo mantenere la calma e rimanere lucida. Non dovevo perdere il controllo.
Osservai di fronte a me. C’era la finestra della cucina. Luci accese, qualche rumore di sottofondo e due polizziotti che scorsi dalle tende bianco latte, il quale stavano parlando dell’accaduto. La loro analisi era troppo ricca di contenuti contorti, di cui non capii quasi nulla.
Recipii un sola cosa: “Qui, non c’è nulla da fare”.
Non c’erano tracce, nulla. La cosa era molto preoccupante. Non c’era niente, che riconducesse alla dinamica dell’accuduto. Era veramente strano.
Scesci dall’auto. Riflettei mentre, mi dirigevo verso il viale illuminato da due file di lampioni.
Notai un leggero contrasto tra la strada grigio scuro, che brillava sotto la luce dei lampioni e il verde scuro dell’erba tagliata dei piccoli giardini delle case. Non era un elemento rilevante.
Trovai Manuel, seduto sugli scalini in legno di casa Smith con accanto Mattia.
Puntai lo sguardo sulla porta, con le tipiche striscie gialle. Feci quattro passi, indietro. Osservai.
Alla prima occhiata, appariva normale: scuri chiusi, la solita sedia in legno sul poggiolo, la famosa crepa che partiva dalla base arrivava alla porta (era stata provocata da Ilary, alle sue prime guide). Era tutto perfettamente normale.
Gli odori erano sempre gli stessi: quello dell’erba appena tagliata dal vicino, il profumo dei fiori e quello dolcissimo aroma del secolare abete situato dietro alla casa.
Veramente, non c’era nessun elemento, che mi facesse pensare a qualcosa. A pensarci meglio. Qualcosa di misterioso si celava all’interno di quella casa.
Per scoprirlo dovevo entrarci ed era quello che avevo intenzione di fare.
Manuel mi fissò. Il suo sguardo era colmo di rabbia, che se avrebbe voluto fare qualcosa per rimediare l’avrebbe fatta. Accanto c’era Mattia, anche lui arrabbiato.
Non dissi una parola. Non volevo renderla più difficile a Manuel. Le mie parole non l’avvrebbero confortato.
La porta d’entrata si aprì.
L’odore che odiavo di più al mondo, giunse fino a me. Dovevo contenermi. Profilo basso. Digrignai i denti, strinsi le mani, braccia tese. I due poliziotti uscirono con disinvoltura.
L’odore unico al mondo che odiavo e che non riuscivo a sopportare, l’odore di “vampiro”.
Il mio desiderio di seguire una pista, trovarlo e ucciderlo. Prevaleva su tutto. Il mio istinto mi spingeva a farlo, ma era più importante entrare nella casa e trovare un elemento per iniziare la ricerca di Ilary.
Il mio pensiero fisso era ancora su quell’odore, dovevo tenere a freno il mio istinto (cosa non molto facile).
Qualunque cosa pensassi la parola “uccidere”, mi era fissa in testa. Respirai.
I poliziotti se andarono, senza dire una parola. I loro sguardi erano impalliditi appena mi videro. Non ci feci caso, non fecero caso a Manuel e Mattia. Uno di loro, mi guardò per una frazione di secondo. Sbarrò gli occhi, pensavo che avessi un aspetto orribile dato che cercavo di tenere a freno il mio istinto di uccidere. Se ne andarono.
Dei passi, lenti e spessi si invaccinarono nella mia direzione. Non mi voltai, sapevo già di chi si trattava. Cercai di rilassarmi il più possibile.
“Allora, che mi dici? Secondo te, che cosa sta succendo?”. Si fermò. Non mi voltai, mi limitai ad osservare l’abitazione.
Una leggera brezza primaverile si sollevò verso sinistra, con se si portò il profumo inebriante della persona vicino a me.
Sospirò. Fece rotolare con un piccolo calcio un sassolino. Tintinnò per un paio di metri. “Non lo so neanche io, siceramente”, ammise.
Un’altra ondata di brezza, mi accarezzò i capelli.
“Io avrei qualche idea in proposito. Dovrei fare qualche ricerca per eccertarmene”. Il che implicava entrare furtivamente in casa Smith. Per questo, non mi preoccupavo affatto.
“Tu avresti qualche ipotesi, al riguardo?”, domandai, voltandomi verso di lui.
Sguardo a terra, capelli a spazzola resi scuri dal buio della notte. Giacca in pelle nera, con l’emblema della sua squadra di football preferita nell’area pettorale destra, blue jeans strappati e un paio di scarpe nere grosse. Sembrava un metallaro. Sorrisi.
“Più di una”, affermò. “Non è un’ipotesi, ma una certezza”.
Il suo profilo basso, mi fece capire che lui sapeva più di quando mi aspettassi.
“Quale sarebbe questa certezza?”. Ogni singolo frammento di me stessa, voleva conoscere la verità. La verità dei fatti!
“Non ti sembra abbastanza logico. Tre sparizioni, un’uccisione”, stava facendo il mio stesso ragionamento. “Infatti, lo è”, lo interuppi.
Sollevò la testa verso il cielo, con un movimento fluido. Osservò le stelle, che disegnavano tratti immaginari.
I suoi occhi si persero, in chi sa quale immaginazione. Non me ne ero accorta, Manuel e Mattia se ne erano andati. Senza dire nulla.
C’era troppo silenzio, per i miei gusti. Guardai l’ora sul cellulare, le 03.35. Era meglio tornare a casa.
“Denis, non è meglio rientrare. Non vorrei che i miei si preocuppassero”, non era affatto, vero. I miei genitori, non si preoccupavano mai. Perché si fidavano. Sapevano che ero perfettamente in grado di badare a me stessa.
Lui era ancora lì. Perso nei suoi pensieri, quanto desideravo sapere cosa pensava. Magari non riguardava, direttamente il discorso che stavamo facendo. A guardarlo meglio era un gran bel ragazzo, non che me ne sia innamorata. Non era male. Soprattutto per i suoi capelli a spazzola.
Stavo delirando. Cosa mi era venuto in mente.
Si voltò. “Andiamo!”, indicai la macchina. Era venuto a piedi, dato che abitava a pochi passi dalla casa di Ilary.
Ci dirigemmo, verso la macchina. “Guido, io!”, esclamò piazzandosi dalla parte sinistra della macchina.
Solitamente non lasciavo a nessuno guidare la mia macchina. Denis, era Denis. Non me l’avrebbe di sicuro usata in modo improprio. Anche se ultimamente, li cominciava a piacere il rally. Speravo che non si mettesse a derapare con la mia macchina.
Di Denis, mi potevo fidare. Non era uno di quei ragazzi sfrontati. Gli cedetti le chiavi. “Portamela a casa integra. Se no, ti vengo a cercare!”.
“E tu, dove vai?”, prese le chiavi al volo. “Indovina?”.
Dovevo assolutamente entrare in quella casa. “Mh…”, il suo ghigno non era affatto di approvazione.
“Dii, a mamma e papà che sarà di ritorno per l’alba”. Mi incamminai verso l’abitazione.
Denis, entrò in macchina. Chiuse la portiera. La accese e con un’accelerata improvvisa si diresse verso casa mia.
Non sarebbe stato legale, entrare furtivamente nella casa di Ilary. Si chiamava “violazione di domicilio”, ma che m’importava! Dovevo trovare Ilary e l’unica cosa che potevo fare, era cercare degli indizzi per capire quello che era successo e andarla a cercare.
Andai direttamente sul retro della casa, dove si trovava un giardino meraviglioso, con una quantità di fiori e piante bellissimi.
Trovai la porta. La aprii.
Di nuovo l’istinto di uccidere emerse. Non ci potevo fare niente, l’odore di vampiro mi suscitava questo.
L’interno era completamente buio, questo non era un problema. Il mio timore era quello di accedere le luci, i vicini se ne sarebbero accorti e per evitare che la polizia venga a controllare non volevo accenderle.
Mi guardai attorno. Oltre all’odore ripugnante di vampiro, sentivo un leggero aroma di: spezie, sottaceti, sale, zucchero e altri aromi. Era finita nella dispensa! Ed era tutta buia. Il buio, non mi faceva paura. Mi suscitava un certa sensualità, l’oscurita. Non sapevo il perché, ma la percepivo così.
Comunque, trovai la porta. Cercai la maniglia, non la trovai. Cercai di nuovo, ma non la trovai. Sentivo una superficie di metallo.
Mi stavo innrvosendo. Non potevo mica abbatterla. Respirai. Cercai nuovamente la maniglia, la trovai. Tirai verso sinistra. E finalmente, si aprì.
Buio, buio. Solo questo vedevo. L’oscurità aveva avvolto tutto il corridoio. Bianco e nero risaltavano, pareva di essere un film degli anni ’20.
Notai, un lungo tappeto. Percorreva tutto il corridoio. Non lo ricordavo.
La porta d’entrata sulla destra era chiusa. Sulla sinistra, le scale che portavano alle camere da letto del piano superiore.
Dall’altra parte del corridoio, si trovava la cucina-soggiorno.
Casa Smith, era una casa molto particolare. Perché la sua struttura si presentava diversa a dispetto delle case classiche. La sua data di costruzione risaliva al 1848. Lo percorsi. Alla mia destra c’era il mobiletto in legno d’acero, ne accarezzai la superficie liscia. Mi portai le dite al naso e ne assaporai il piacevole profumo.
Su di esso, un’ agenda lasciata aperta. Accanto, il telefono con la cornetta che penzolava a terra. Molto probabilmente qualcuno aveva tentato di chiamare.
L’odore fastidioso di vampiro si concentrava, verso la cucina-soggiorno. Ciò significava che i genitori di Ilary si trovavano lì, ma la scia si dirigeva anche verso il piano superiore.
Ecco, qual era il mistero che avevo percepito quando ero fuori. Il fatto che, all’esterno la casa non dava nessuno segno di scasso o cose simili.
Sopra al mobile era presente uno specchio anche questo elemento mi faceva insospettire molto. La madre di Ilary aveva la fissazione di non appendere specchi nel corridoio, non ne avevo mai capito il perché. Ciò nonostante c’era e qualcuno ce l’aveva messo.
Lungo il corridoio, nulla era fuori posto; le solite piante e la solita lampada. Passai avanti e mi diressi in cucina.
Si presentava in modo diverso: il servizio di coltelli che stava vicino al lavello, non c’era più; il frigorifero aperto e mancavano le scorte di carne che aveva portato lo zio di Ilary, qualche giorno fa (cosa se ne faceva un vampiro della carne?).
Questi due elementi era gli unici che risaltavano. Mi appoggiai con la spalla al muro e riflettei.
La dinamica dell’accaduto non l’avevo ancora capita, non era presente nessun indizio che mi fece pensare a che cosa era accaduto.
Da dove dovevo cominciare?
Questo era un bel problema, non avevo esperienza in materia. Forse, era stata una pessima idea venire qui.
Katie Winwolf! Che entra. In casa di Ilary Smith. Per cercare qualche traccia, ed ha dei ripensamenti? No, questo non era da me.
Quando decidevo una cosa era quella e basta e ci dovevo andare fino in fondo. Non era nel mio stile. Ero venuta per scoprire qualcosa in più e non potevo tirarmi indietro proprio adesso.
Partiamo dal presupposto che la madre e il padre stavano rispettivamente nel soggiono-cucina. Da dove erano entrati gli aggressori? La porta non presentava nessun segno evidente.
Se l’odore percorreva tutto il corridoio fino al piano superiore, questo significava che gli aggressori sapevano come agire. Molto probabilmente conoscevano i movimenti e le abitudini delle vittime.
Pensavo al plurale, perché l’aroma di vampiro si suddivideva in tre fragranze diverse. Evidenziava molto chiaramente che erano tre. Come le loro vittime.
Ed erano molto abili, non c’era traccia ne di sangue ne di veleno. Nulla.
Il primo elemento che mi era stato subito strano: il tappeto.
Mi sembrava veramente insolito che ci fosse.
Mi accucciai, per esaminarlo meglio il pavimento in legno. Certo che però con il buio non riuscivo bene a distinguere i dettagli. Passai la mano sulla superficie del tappeto. Era ruvida.
Lo presi in mano, per scrutarlo meglio. Era completamente polveroso quasi incrostato. Come se ci fosse passato un escursionista sorpreso dalla porta.
Dedussi che questo non era stato messo in modo causale.
Sembrava vecchio di anni. Lo percepii dall’odore che emanava, quasi di marcio. Toccai il pavimento, il tappetto lo avvolsi da una parte. Feci scorrere le dita su di esso per un breve tratto. Avvertii un piccolo solco poco più lungo di 10 centimetri. Non compresi. Aggrottai la fronte.
Mi voltai, presi la cordicella che oscillava della lampada. Tirai.
E luce fu, dissi tra me.
Sbarrai gli occhi dallo stupore. Osservai. Erano quattro solchi, nel pavimento. Come dei graffi di una tigre. Su di ogni uno, delle piccole tracce di sangue assorbite dal legno.
Scattai in piedi. Presi in mano il tappeto e tirai tutto da una parte.
La luce metteva in chiaro, tutti i dettagli.
Qui. Era stata trascinata una persona, i segni partivano dalle scale fino alla porta.
Ilary! Dovevo andarla a cercare. Non avevo tempo per trovare altri indizzi. Spensi la luce.
Utilizzai di nuovo la porta sul retro.
Mi conveniva attraversare la foresta, piuttosto che passeggiare per il centro della città.
Non volevo incappare in qualche malitenzionato, dato che negli ultimi tempi c’erano stati episodi di questo genere (anche se sapevo difendermi benissimo).
Non aveva importanza, l’importante adesso: era trovare Ilary.
La foresta era completamente buoia, la leggera brezza della primavera mi penetrava nelle narici e portava con se quel bellissimo profumo di pino e felce.
Il terreno era umido. Il muschio ricopriva ogni tipo di pianta e roccia.
Percepii uno scricchiolio. Mi fermai. Osservai, attorno a me. Delle ombre si muovevano. Rimanei immobile, pronta a scattare in qualsiasi momento.
Guardai a destra e a sinistra. Altre ombre si muovevano. Erano solo animali. Probabilmente, era tutta la mia immaginazione. Proseguii nella mia camminata notturna. Era una cosa che facevo spesso.
Un altro scricchiolio. Questa volta mi girai. Un’ombra poco definita si trovava vicino all’albero, contrassegnato dal mio graffio. Mi piaceva deliniare il mio territorio.
Esaminai, quella cosa indefinita. Assimigliava ad una forma umana, ma era troppo buio per capire. Si confondeva benissimo, con l’ambiente circostante. Non si muoveva. Eppure era lì, non era la mia immagine. Volevo avvicinarmi. Non lo feci. Annusai, dato che non potevo identificarla visivamente. Niente, nessun odore. Come quello dell’acqua indefinito.
Bzz, bzz, bzz. Posi la mano sulla tasca del jeans. Sfilai il cellulare.
“Pronto?”. Chi mi poteva chiamare a quest’ora?
“Katie, se stai tornando a casa. Denis, mi ha riferito di dirti che la tua insolumità può essere in pericolo”.
La mia incolumità? Che stava dicendo mia madre? Avevo distolto lo sguardo per 10 secondi e quella figura anomala era sparita.
“Mi senti? Kartie?”.
Cosa era? Cosa ci faceva lì. E perché Ilary era stata rapita? Questa storia, stava divento più confusa di prima.
 
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-lupetta-
view post Posted on 19/6/2012, 21:01




Carino come capitolo ^^ però ti consiglio di rileggere gli ultimi due capitoli perchè ci sono degli errori...
Te ne elenco qualcuno^^
"Questi due elementi era gli unici che risaltavano."Hai dimenticato di usare il plurale(nel capitolo ci sono parecchie dimenticanze)
"Katie Winwolf! Che entra. In casa di Ilary Smith. Per cercare qualche traccia, ed ha dei ripensamenti?" ci sono troppi punti.
Ce un errore che fai spesso:
usare "ci" al posto di "gli/le"
Comunque il tuo racconto mi piace veramente tanto :)
 
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Winwolf_93
view post Posted on 21/6/2012, 22:10




CAPITOLO 6


CAPITOLO 6

“Katie? Katie, sei ancora lì? Katie, rispondi. E’ successo qualcosa?”





























Stavo diventando pazza? Forse tutta questa storia era una pazzia o forse era tutta la mia immaginazione?
Ero confusa. Nel mio cervello, vagano pensieri di ogni genere.
Potevo impedire che accadesse? Potevo proteggere le persone che erano in pericolo?
Forse si, forse no. Mi sentivo in colpa comunque.
Non capito che cosa c’entrava l’incubo che avevo fatto: una ragazza vestita di bianco in un bagno di sangue. Aveva un significato simbolico. A cosa si riferiva? A Ilary? O alla mia morte?
Mia madre mi viene a dire che, la mia vita era in pericolo.
Ilary, la mia migliore amica. L’unica persona su cui potevo contare veramente. Con lei mi sentivo me stessa ed esprimevo, quasi ogni cosa su quello che pensavo.
Anche se negli ultimi tempi, non avevamo avuto buoni rapporti. Ci vedevamo di rado. Probabilmente per il fatto delle continue verifiche, che c’erano in queste settimane.
In parte era colpa mia, perché me la prendevo per delle cose banali e mi sentivo poco considerata. Non parlavamo molto solo su telefilm e le scuola. Stavo cominiciando a pensare che la nostra amicizia era fondata solo ed esclusivamente sulle nostre passioni. Era quello che ci teneva assieme, non c’era altro.
La sottoscritta si sentiva poco considerata perché, Ilary considerava molto di più la sua amica Daisy. Alcune volte per fino non mi rivolgeva la parola e parlava con lei, piuttosto che con me. Spesso capitava che io parlavo e lei neppure mi ascoltava. Era terribilmente frustrante.
Come poi sempre accadeva, ci parlavo comunque. Come se non fosse successo nulla. Principalmente ero una persona che si tieneva tutto dentro e si ritrovava la sera, nel letto a piangere senza motivo. In questo caso mi venivano degli istinti di suicidio, oppure mi consideravo una persona che non sa fare nulla nella vita.
Il mio difetto più grande era quello di avere l’autostima pari a zero. Mia madre me lo aveva sempre detto di credere di più, in me stessa. Ed io invece, che facevo. Mi criticavo continuamente.
Mi dicevo sempre che non sapevo fare niente, un’incapace. Così mi definivo.
Questo mi faceva star male.
Un altro lato della mia personalità negativo era il mio pessimismo.
Solo una volta mi sono sentita soddisfatta di me stessa, quando per la prima volta avevo battuto Manuel nel tiro con l’arco. L’avevo stracciato, oltretutto avevo una mira infallibile, solo questo. L’unico rocordo della mia soddisfazione.
La parola amicizia, continuava a rimbormarmi nella testa.
Non mi accorsi nemmeno che avevo il cellulare in mano e mia madre che mi chiamava disperatamente. Lo chiusi, senza pensarci.
Stava per arrivare l’alba e dovevo essere a casa.
Camminai spensieramente, nonostante i pensieri che mi affliggevano. Da una parte personalmente non m’importava nulla di questa situazione talmente assurda, che preferivo non farvi parte. Ormai ne ero coinvolta, senza neanche volerlo. Non facevo altro che pensare a Ilary. Se le fosse successo qualcosa non me lo sarei perdonata.
Ok, ok. Katie, non piangere. Non piangere. Oltre tutto, che casa potevo fare? Non pensarci, questa dovevo fare.
Come potevo? Disperata com’ero. Qualcuno me lo sapeva spiegare? Una ragazza con un sogno e una speranza, come poteva cavarsela in un mono come questo? Dove nessuno aveva rispetto per nessuno. In una società senza “leggi ne regole”. Io disprezzavo, il sistema di oggi. Non sopportavo sentire tutti i giorni: morti, omicidi, rapimenti, stupri, pirati della strada e molti altri. Non riuscivo a tollerare queste notizie. Io mi domandavo, se per la gente uccidere era un divertimento. Un semplice desidero, per eccittarsi. Personalmente se mi era concesso gli avrei fatti fuori tutti senza alcun problema.
Una sola volta mi si era presentata l’occasione. Una sola volta.
Mi trovavo a Seattle, non ci andavo di spesso. Anzi non varcavo quasi mai il confine. Era estate, mi ricordavo che faceva un caldo pazzesco. Passeggiavo per le vie del centro, guardando le vetrine dei negozi (anche non c’era un grancchè di interessante), ero sola. Ed era a conoscenza che a Seattle, era presente un tasso elevato di criminalità anche se negli ultimi tempi si era abbassato.
Il posto perfetto dove cominciare a fare un po’ di pratica.
Girai quasi tutta la città, non era presente nulla che mi face pensare di trovare ciò che cercavo.
Dovevo passare ai vicoli bui, lì avrei trovato pane per i miei denti. Ci potevo giurare.
Percorsi il primo vicolo dall’aria tetra. Stretto, buio, con una luce fioca da un lampione trasandato. Lo attraversai tranquilla anche se un po’ di paura l’avevo. Probabilmente non era normale una ragazza di 17 anni, che si aggirava nei vicoli più pericolosi di Seattle.
Mi guardai attorno, deserto non c’era niente e nessuno. Lo percorsi per due metri.
Quando volevi cercare qualcosa non la trovavi mai, era frustrante.
Una lattina rotolò, fino ai miei piedi.
“Chi abbiamo qui”, una voce roca maschile proveniva dall’angolo alla mia destra.
“Non te l’ho presentata, Max. Questa è la mia ragazza”, un’altra voce maschile, questa volta più fine. Dietro di me.
Forse avevo trovato quello che cercavo, bastava attenersi al gioco.
“Veramente, Lucas? Non me lo avevi detto. Da quanto siete insieme?”, domandò
Max. Fece un sorriso. Scintillò nel buio.
“Da sempre. Non te la ricordi”. Ok, la questione si stava scaldando, ma fino a che non mi avrebbero aggredita non avrei agito.
Lucas, si avvicinò a me. Il suo odore non era affatto buono. Ne ero disgustata.
Accarezzò delicatamente la mia spalla, dove provò a scomprirmela. Con la leggerezza di una farfalla prese il tessuto della mia maglietta e se lo annusò. Io, ferma a guardare nel vuoto. Continuavo a ripertermi: Come dovevo agire? Come dovevo agire? Non trovavo risposta, dovevo lasciarmi andare e agire successivamente oppure farlo fuori, all’istante?
Lucas, continuò ad annusarmi: capelli, mani e spalle. Max, guardava senza dire una parola. Era appoggiato al muro, con le braccia incrociate.
L’aria stava diventando pesante, il piccolo vicolo sembrava diventato un luogo di scambi notturni. Non mi piaceva affatto.
“Cert che hoi un ottimo profumo”, mi sussurò all’orecchio. Ci rimasi impietrita, sentendo le sue parole.
Passò di nuovo il suo naso nei miei capelli. Perché lo stava facendo?
Appoggiò la sua mano sulla mia spalla sinistra, con l’altra raccolse i capelli per scoprire la gola. Mi stavo cacciando in un brutto guaio, non erano persone normali. Erano qualcosa di più. Ci impieghai circa due minuti per comprenderlo.
Ecco, perché negli ultimi mesi c’erano stati in continuazione sparizioni. La causa erano loro due.
Ok, stare calmi era l’unica soluzione. Non ce la facevo, non ci riuscivo.
“Basta con questa buffonata”, disse Max. Che cosa stava dicendo? “Levati, Lucas”. Lucas si allontanò per qualche passo.
“Winwolf”, come faceva a saperlo? “Si…”, dissi mordendomi il labbro. Possibile che tutti mi conoscevano, ovunque io andassi.
“Cosa aspetti, Max! Uccidiamola”. Uccidermi?
“Stai, calmo. Dobbiamo fare bene il nostro lavoro. E per questo motivo che siamo stati creati”. Creati?
Max, si voltò verso di me. Con i suoi occhi, rossi come il sangue “Vedi, Katie.” Passandosi la lingua sul labbro superiore “noi dobbiamo ucciderti”, adesso avevo paura.
“Perché?”.
“Ci hanno incaricati di farlo. Ci manda un certo: Dan Stevenson”.
Dan Stevenson, quel bastardo!
“Perché vi ha mandato ad uccidermi, ha paura di finire il suo lavoro? E preferisce farlo finire a voi?”, le parole mi uscirono dalla bocca, come veleno.
“Non ti permette, di parlare male di lui!”. Max prese in mano la mia maglietta e mi sbattè contro il muro. Mostrò i denti.
“Secondo me, si. Ha paura di affrontarmi, non ha il fegato. Perché sa benissimo di che cosa sono capace. Questa è la verità”, nutrivo un profondo odio per lui.
“Lui ci ha spiegato tutto su di te e sulla tua famiglia. Se la si può definire così”, mi stava provocando. Non mi potevo muovere, mi teneva incollata al muro. Con la sua faccia a pochi centimetri dalla mia. “Sapeva benissimo che un giorno saresti venuta qui, a Seattle”, in sostanza era una sottospecie di trappola e ci ero cascata in pieno. Nascosi lo stupore.
“E come avreste intenzione di uccidermi? Il che sarà, impegnativo”. Sorrisi.
“Tu non preoccuparti, noi sappiamo fare bene il nostro lavoro”, disse Lucas. “Questa l’avevo già sentita”, dissi sottovoce.
Max, mi guardava. Sembrava esitasse. Qualcosa lo bloccava.
“Allora cosa aspetti? Fallo! Così potrai riferie a Dan che mi hai uccisa”, la mia intenzione era proprio quella di farlo arrabbiare.
“Come vuoi tu”, non ci pensò due volte. Si avvicinò a pochi centrimetri dalla mia gola, ad occhi chiusi.
La sirena della polizia, lo interuppe. Ebbe di nuovo un’esitazione. Voleva farlo ma ne ebbe il tempo. I fari della macchina illuminarono tutto il vicolo.
Max e Lucas, sparirono in un’istante. Mi appoggiai al muro con la mano sul collo (ovviamente stavo fingendo).
“Signorina, sta bene?”, domandò il poliziotto in divisa blu.
“Si, si. Tutto a posto”, continuai a toccarmi la gola.
“E’ sicura? Le hanno fatto del male?”.
“No, non mi hanno fatto nulla”, il che non era dello tutto vero.
Se non fossero intervenuti i poliziotti, avrei ucciso Max e Lucas. Dan, qual figlio di un cane. Chissà se era ancora vivo. Non mi aveva più dato la caccia e a Seattle non c’erano stati più omicidi.
Mi venne un lampo di genio: se Dan mi stva dando la caccia anche non l’avevo mai incontrato e nemmeno Max e Lucas. Se tutte queste sparizioni fossere opera sua? Se la aveva fatto per attirarmi un’altra volta, come una trappola. Se avesse rapito Ilary, di proposito?
Voleva vendicarsi perché ero ancora viva. Quindi la telefonata che avevo ricevuto era, forse, sua.
Come un’ultima tessera di un puzzle diede senso al quadro della storia.
Dovevo correre e arrivare al più presto a casa, per raccontare tutto i miei genitori. Mi feci strada fra la moltitudine di alberi e roccie. Ogni minuto era prezioso, non potevo permettermi di perdere tempo.
Scansando il ramo di un abete, arrivai a casa. Il sole stava per sorgere, l’oscurità se ne stava andando e il cielo assunse un colore roseo.
Senza pensarci, spalancai la porta. Trovai mia madre e mio padre a metà del corridoio. Mio padre stava accarezzando la spalla, di mia madre. Non capii perché si erano messi lì in quela posizione. Sicuramente, avevano saputo l’accaduto, più i dettagli da Denis.
Mi guardavano preoccupati, quasi ingosciati.
“Perché mi guardate così?”, la mia voce uscì con una nota più acuta del solito.
“Ti stavamo semplicemente aspettando”, rispose mio padre.
“Ed occoreva farlo, in questo modo? Potevate attendermi anche in cucina”, questa situazione era abbastanza strana.
“Pensavamo che in quest…”, mia madre lo interuppe posandoli l’indice della mano destra sulle labbra. Un leggero fremito, mi percorse la schiena.
Sussurò qualcosa in lingua incomprensibile all’orecchio di mio padre, “D’accordo”, le disse, guardandola con occhi dolci. Sembrava che per un’istante non esistessi.
Lei, li cinse il collo. I loro visi a pochi centimetri. I loro occhi si incrociarono, come se fosse stata la prima volta. Un piccolo bagliore si riflettè negli occhi di mia madre. Pareva, una scena vista in quei film di guerra. Dove il marito partiva, lasciando tutto alla moglie con i figli più piccoli.
Mi schiarii la voce. Proprio di fronte a me dovevano farlo?
“Voglio una spiegazione”, incrociai le braccia. Li guardai entrambi, assomigliavano a Romeo e Giuletta: lei con la mano sul petto di mio padre e lui che le cingieva le spalle. Non li avevo mai visti così. Così perfetti, insieme.
Senza rivolgermi lo sguardo, il quale era concentrato sulle labbra di mia madre: “Denis ci ha riferito, di quanto è successo”, accarezzò delicatamente i capelli lunghi mossi di lei, “ed abbiamo dedoto che molto probabilmenete si tratta di Dan Steveson”, quindi la mia supposizione era esatta.
“Dan Steveson? Perché? Cosa è venuto a fare, qui?”, le domande uscirono dalla mia bocca, senza esitazione. Qualcosa mi diceva che loro sapevano qualcosa a cui io non ero a conoscenza.
“Dan, ci sta dando la caccia”, volevo chiedere il perché, mia madre mi anticipò: “Dan Steveson è un pericoloso vampiro. Il suo obiettivo è che ci vuole tutti morti”. Spiegato il motivo, perché mi aveva dato la caccia precedentemente.
Dan, era stato il responsabile dello sterminio, della mia famiglia e questa non potevo perdonargliela.
“Dovremmo dargli la caccia!”, quest’idea mi attirava.
“Non possiamo”, tutta la mia eccitazione, fu smorzata.
“E perché, non possiamo?”, sbarrai gli occhi, “noi. Lasciamo in circolazione un elemento così pericoloso? Io, non credo!”, passai dalla rabbia alla disperazione.
“Katie, non potremmo mai affrontarlo”, intevenne mia madre.
“Dammi un valido, motivo! Ha sterminato la nostra famiglia, ha ucciso tre ragazze ed ha rapito Ilary! Dimmi perché, no!”.
Avevo già vissuto, questa situzione. Per un solo istante, calò il silenzio.
Avrei preso l’iniziativa di andare a cercare Dan e trovare Ilary.
“Posso capire che sei sconvolta”, no. Non capiva affatto, di come mi sentissi, “dalla sparizione di Ilary. Non possiamo. E’ troppo pericoloso.”, disse in tono melodrammatico.
La pensavo diversamente, non m’importava niente. Poteva essere la persona più pericolosa di questa terra. L’avrei affrontato con tutte le mie forze.
“Ma, non capite! Quanto è grave la situazione!”, restarono impassibili, senza tradire alcuna emozione.
Parlare con loro non serviva a nulla, si ero: disperata e scossa. Dovevo agire di mia iniziativa. Così non poteva andare. Scappare, invece che affrontare il nemico, significava essere codardi e io non volevo esserlo.
Aprii, la porta. “Dove stai andando?”, mi richiamò mia madre. La guardai con la coda dell’occhio. “Me la sbrigherò da sola”, ero decisa a porre fine a questa storia.
“Tu, non andrai da nessuna parte”, si piazzò sulla soglia. I suoi occhi rifletterono una luce strana, stava per scoppiare in lacrime. Allo stesso tempo era ferma e convinta della sua azione. La guardai, la studiai. La sua mano era ferma e decisa. Mio padre, stava assistendo alla scena come uno spettatore.
Solitamente era lui che interveniva in quete questioni.
Ci avrei scommesso la mia macchina, che questa situazione toccava più lei che lui. Lo dedussi dall’espressione di mia madre.
“Non capisci, là fuori si aggira un killer spietato. Con l’unico scopo di uccederci”, ribabì nuovamente lei.
Quale scelta avevo? rimanere a discutore oppure farmi uccidere per una giusta causa? Riflettei. Non serviva neanche pensarci. Era meglio rimanere qui, che farsi uccidere.
Dovevo pensare bene, prima di agire.
Attendeva una risposta, glielo si leggeva in faccia.
Mi girai dall’altra parte, sospirai. Andai dritta, verso le scale. Non degnai neanche di uno sguardo mio padre. A passi decisi, feci le scale. Un po’ arrabbiata, lo ero. Secondo quello che mi era stato insegnato non potevo fare quello che volevo. Perché mettevo a rischio la mia vita e quella degli altri, non era nei miei programmi.
“Chissà dove sarà, Ilary. In questo momento”, dissi. Parlando al mio peluche preferito.
“Tu che ne pensi”, lo guardai, “Cosa, vuoi sapere tu. Sei solo un peluche di pezza”. Me lo girai e rigirai. Aveva delle bruciature sulle zampe posteriori e anteriori. L’avevo bruciato io. Sorrisi al ricordo.
Me lo posai sul torace. Mi guardava con i suoi dolcissimi occhi blu come il mare. Se non ricordavo male, era stato il primo peluche che avevo ricevuto per il mio compleanno: un bel lupo grigio.
Fissai, l’orologio. Segnava le 6.00. Presto la luce sarebbe entrata nella mia stanza.
Mi chiedevo, se devevo andare a scuola oppure no. Se ci sarei andata, sicuramente Manuel e Mattia mi avrebbero assillato. Non ne avevo affatto voglia.
L’alternativa era rimanere a casa, senza fare nulla. Avrei optato per la seconda e andare a fare un giro di perlustrazione.
Oggi era martedì. Giorno di pulizia, della mia camera e giorno di ascoltarsi Heat of the moment. Ormai era diventato una sottospecie di rito. Chi vuoi prendere in giro, Katie. Dì solo che vuoi andare a cercare Ilary. Ok, la mia coscienza aveva ragione, non potevo negarlo.
Osservai fuori dalla finestra, i raggi luminosi del sole stavano cominciando ad illuminare l’ambiente. Si potevano avvertire chiaramente i cinguettii degli uccelli.
Non mi rimaneva altro che attendere ancora un po’ di tempo e sarei andata a fare colazione.
Restai, ferma. Distesa sul letto, mentre guardavo il soffitto bianco.
Nulla può cambiare il passato, ma nulla può impedire al futuro di cambiare.
Questa frase mi risuonò da una piccola parte imprecisata della mia mente, ed aveva ragione. Indietro non si poteva tornare, però si poteva fare qualcosa. Il futuro poteva cambiare, bastava volerlo.
Finalmente la luce del sole, entrò in camera. Era ora di alzarsi.
Mi diressi verso le scale, saltai gli ultimi cinque scalini ed atterai sena aver fatto alcun rumore.
“Katie, sei tu?”, gridò mia madre dalla cucina. Come aveva fatto a sentirmi?
“Si!”, le risposi. Stava affettando qualcosa, il cotello batteva su una superficie morbida come il legno. Il ritmo era scandito e netto come i veri cuochi sapevano fare.
“Cosa, stai facendo di buono?”, domandai sciovolando dientro di lei, per guardare. Erano 10 fette tutte tagliate perfettamente uguali. Arrosto.
“Ti sei ripresa?”, versò l’olio nella padella.
“Non del tutto …”, accesi la radio. Presi, la mia tazza e ci versai del latte. Mi appostai vicino a lei.
“Papà, dov’è andato?”. Come una ballerina a passo di danza, appoggiò la padella sul piano di cottura. Affettò la cipolla e ce la versò. Era tutta contenta, chissà per quale motivo.
“Se è andato, presto. Quando ero ancora nel letto”, mistero. Qui, tutto era un mistero.
“Mamma, secondo te cosa se ne fa un vampiro di tre chili di carne e un servizio di coltelli?”.
Si arrestò, tutto d’un colpo. Appoggiò delicatamente le mani sul bordo del lavello. Afferai, un pezzo di pane il quera avanzato. Lo inzuppai nel latte, ne diedi un morso. Masticai, silenziosamente in attesa della risposta. La guardai. Cosa mai le avevo chiesto? Una semplice curiosità, nulla di più.
Inzuppai nuovamente il pane nel latte, non le distolsi lo sguardo. Assomigliava ad una statua greca: sguardo dritto, mani dolcemente posate sulla superficie di acciaio, capelli raccolti in una coda posta da un lato e le gambe rilassate. Dedussi due cose. Primo, era rimasta colpita dalla mia domanda (improbabile). Secondo, si era persa nei suoi pensieri. Oppure, terzo. Non pensava a nulla. Continuai a mangiare, facendo monologhi su monologhi. Ricapitolando: Ilary era scomparsa assieme ai suoi genitori, tre vampiri era entrati a casa sua, Dan ci stava dando la caccia, Emy anche lei uccisa, altre state sparite e l’unico obbiettivo di tutta questa vicenda probabilmente eravamo noi.
Dopo, questo esame le cose risultarono più chiare. Il principo era la nostra famiglia. La domanda che mi veniva spontanea, perché? Cosa avevamo di strano o particolare da scatenare l’ira di un essere, il quale non conoscevo nemmeno? Non serviva nella farsi domande, quello che conteva veramente erano i fatti e non le parole. Cosa avremi mai risolto, facendo continuamente domande senza risposte.
Finii l’ultimo pezzo di pane.
Mi sorgevano altre domande. Per trovare Dan, dovevo trovare Ilary e per trovare Ilary chi dovevo trovare? Le alternative erano poche: Ilary era stata uccisa oppure trasformata. La seconda alternativa, mi suonava meglio. Da quello che sapevo su Dan, non uccideva quasi mai le sue vittime specialmente se ragazze.
“Un vampiro, non se ne fa nulla”, rispose finalmente, “Dan, deve essere nei paraggi. Ne avevo sentito l’odore, la scorsa notte”, parlava da sola, “aveva giurato di ucciderti. Di punirti per quello che sei. Aveva sterminato la nostra famiglia, non aveva risparmito nessuno. Io e tuo padre eravamo decisi ad affrontarlo. Non l’abbiamo fatto perché era troppo forte e furbo, quindi ci siamo trasferiti qui in America. Sperando che non ci trovasse, evidentemente non è stato così”, questa parte della storia mi era sconosciuta.
“Non me lo avevi mai detto, perché? Perché, proprio ora?”, domandai quasi irritata. Si girò, con gli occhi gonfi di lacrime. “Perché, è adesso che devo conoscere la verità. Noi pensavamo fosse, solo una cosa di passaggio”, si aggrappò ai bordi del lavello.
“Dopo tutti questi anni! Vengo solo oggi a capire che là fuori, c’è un vampiro che mi vuole morta?”, questa era stata colpa loro. Loro non mi avevo detto la verità fin da subito. Adesso, ne trarranno le conseguenze.
“No, Katie”, cercò di calmarmi, “ascolta …”, il che non funzionò.
“Ascoltami, tu mamma. Io me ne vado”, mi alzai dalla sedia e mi diressi verso la porta. Uscii di casa.
Senza pensarci, mi diressi di corsa verso la foresta. Abbattei qualsiasi cosa, intralciasse il cammino. Era furiosa, arrabbiata e ferita. La parte più sensibile di me stessa era stata trappassata da parte a parte. Io, mi fidavo dei miei genitori e cosa ci avevo ricavato? Nulla.
Perché Dan, ce l’aveva con me? Che cosa gli avevo fatto? Lui aveva sterminato la mia famiglia, quando ero ancora in fasce. Diedi un pugno, ad un albero il quale cadde sbattendo con un altro albero. Aumentai la velocità della mia disperata corsa. Emettei, un ringhio di pura rabbia.
Afferai una roccia, lunga circa due metri. La scagliai, con tutta la mia forza contro un’altra più grande. Si frantumò in tantissimi pezzi. Continuai la corsa.
Percorsi chilometri e chilometri, senza meta. Davanti a me, durante la mia disperata corsa. Un alce maschio, mi puntanta con le corna pronte a attaturire il colpo che mi avrebbe inflitto. Saltai sopra di lui gli presi la testa e gliela girai. Le ossa scricchilarono. Il grosso erbivoro cadde a terra. Cominciai a trappargli la pelle a morsi, il sangue mi colava dalla bocca, i miei vestiti e le mia mani erano insagunate.
Mi arrestai.
Cosa stavo facendo? Come mi stavo comportando?
Il prato assunse un colore rosso acceso, il sangue scivolò in ogni insenatura del terreno irregorale formando una macchina grande quanto l’animale stesso.
Ripresi a correre. Adesso, mi sentivo triste. Rallentai. Ad ogni passo, sembrava che il tempo diminuisse fino a che mi ritrovai a camminare.
L’ambiente attorno a me, pareva soffrire con me. Trovai una roccia, dove sedermi.
Mi guardai attorno, mentre canticchiavo la mia canzone preferita dei Spandau Ballett –Through the barricades. La sua melodia, rifletteva esattamente come mi sentivo il mio stato d’animo. Guardai, il lungo viale di alberi abbatuti che avevo lasciato dientro a me e in lontananza l’alce ucciso.
Through the barricades, continuavo a ripertere e mimavo il suono della canzone. Imitai dolcemente il suono della chitarra acustica, che amava tanto.
Forse avevo esagerato. Mi rannicchiai, dondolandomi. Nella mia mente, lascia spazio alla canzone. Mi confortava.
Tutti i momenti, più belli che avevo passato assieme ai miei genitori, amici, conoscenti, Ilary, Manuel, Mattia e Denis. Come dei fotogrammi, attraversarono la mia mente. Chiusi gli occhi. Dimenticai tutto. Mi fusi, alla canzone e ne diventai un tutt’uno.
La sensazione era quella del paradiso, tutto quello che era attorno a me non c’era più solo una distesa di cosmo stellato.
Un’ altra canzone prese spazio, con una carica di rock. Feci finta di suonare una chitarra. Sorrisi.
Battei il piede a tempo. All I want is to have my peace of mind, cantai. Ecco, cosa desideravo La pace della mente.


Mi alzai. Probabilmente, mi ero addormentata. Forse era meglio tornare a casa. Avevo lasciato lì mia madre. Il solo ricordo mi faceva stare male.
Saltai giù. Mi stava venendo in mente una canzone che cantavo tutti i giorni: Just to keep them alive, ricordava tanto quando mi esaltavo. Passeggiai per il bosco, canticchiandola.
Imitai il delizioso suono della chitarra, il quale mi faceva impazzire.
Percorsi lo stesso percorso che avevo tracciato. Sembrava fosse passato un ciclone seguendo una direzione precisa. Il ritmo della canzone scandiva i miei passi. Mi ero sfogata, ecco cosa avevo fatto. Sinceramente non sapevo neanche, dove mi stavo trovavo. Questo non era importante.
Osservai, quello che c’era attorno a me. L’ambiente sembrava essersi immobilizzato. Il tempo si era fermato? Entrambe le parti sia destra che sinistra mi davano quest’impressione. Nemmeno un cinguettio di un uccello si udiva. Percepii un nitrito, uno scalpitare di zoccoli in lontananza.
Lo scalpitio si fece sempre più vicino. Continuai a camminare. All’orizzonte vidi un cavallo nero. Galoppare verso di me. Era sellato con le redini che pendevano. Mi fermai, ormai era vicino. Amavo i cavalli in modo particolare quelli neri. Mancavano pochi metri, fra me e lui. Impennò alla mia vista, emettendo un altro nitrito. Era spaventato, lo capii dai suoi occhi.
“Calmo, bello”, mantenei le mani basse e mi avvicinai. Con le orecchie puntate verso di me, attento a ogni mio singolo movimento. Mi avvicinai ancora il più lentamente possibile.
“Non avere paura”, lo rassicurai. Presi le redini, impennò nuovamente. Arretrò di qualche passo e si calmò. Gli accarezzai la fronte, “Va tutto, bene”, pronunciai le mie parole in modo così dolce che non mi riconoscevo. Nella mia mente, si focalizzò la mia immagine, con una colorazione scura. Non capii. Lo accarezzai nuovamente: la stessa immagine, ma questa volta con colori più caldi. Mi guardò.
Cosa ci faceva un cavallo, in una foresta scappato da chissà dove.
Presi l’altra redine e la legai. La misi dove c’era la sella. Lui si girò a guardarmi. Lo accarezzai. Il preciso fotogramma della mia immagine nel momento in cui legavo le redini e le mettevo al loro posto.
“Vuoi che ti monti?”, gli chiesi. Non fece nessun segno di approvazione.
Non avevo mai avuto esperienza con i cavalli. Che dovevo fare? Montarlo, non ero capace, condurla a mano forse sì. Ripresi le redini e cominciai a camminare, lui mi seguì senza opporre resistenza.
Attraversai assieme a lui tutta la foresta, non mi dava nessun segno di ribellione. Si faceva condurre.
Dovevo ancora capire, perché quando lo accarezzavo vedevo la mia immagine. Mistero. Portarlo a casa e capire di chi era.
Dopo una trentina di minuti, di camminata arrivammo a casa. Portai il cavallo nel garage e lo legai.
“Tu stai qui, buono”, gli raccomandai. Non si mosse.
Salii le scale, entrai in casa. “Mamma!”, la chiamai.
“Sì, che c’è?”, urlò dal piano di sopra.
“Devi venire subito, fuori. Non ci crederai”, ero eccitatissima. Scese le scale. “Cosa c’è di così importante, da farmi vedere?”, domandò quasi stupita.
“Sono certa che ti piacerà”, sorrisi. Lei annuì.
Le feci cenno di seguirmi. Uscimmo di casa. “Cosa devi farmi vedere?”, domandò quasi seccata. Non le risposi.
Era rimasto ancora là, come lo avevo lasciato. Nero lucido si girò, verso di noi. Andai subito ad accarezzarlo.
“Dove l’hai trovato?”. Lo accarezzò sul muso, quasi sfiorandolo.
“Nella foresta”, risposi. Gli accarezzai. La criniera, nera e folta. “Tu sai, a chi appartiene?”.
Lo guardò in tutti i dettagli. Sfiorò la sella e le staffe. Si mise la mano sulla bocca. I suoi occhi erano colmi di lacrime.
“Perché piangi?”, passò la sua mano sulla fronte del cavallo.
“L’hai trovato”, disse accarezzandolo ancora.
“Trovato, chi?”.
Di colpo: lei, il cavallo, il garage, la casa e l’ambiente circostante sparirono. Nero e buio.
Mi svegliai. Era solo un sogno.
Dove mi trovavo. Guardai. Nella foresta, che avevo fatto a pezzi. Come avevo fatto ad addormentarmi? Era sera. Come avevo fatto a dormire così, tanto?
Mi alzai, indolenzita. Scuotei la testa. Meglio tornare a casa.
Percorsi la stessa strada che avevo fatto precedentemente. Guardai a destra e a sinistra. Non c’era nulla di strano. Passeggiai tranquilla. Al chiarore della luna.
“Dove stai andando, Katie?”, disse una voce maschile proveniente dal lato folto destro della foresta. L’avevo già sentita, non ricordavo dove.
“Chi sei?”, dissi girandomi a destra.
“Dovresti saperlo”, rispose. Non c’era nessuno. Non è che forse era un altro sogno. Riflettei. Non poteva essere. Mi ero svegliata, non poteva essere. Eppure quella voce, quel tono. Mi era famigliare.
“Come? Dopo tutti questi anni”.
“No. Non me lo ricordo”, ammisi.
“Pensaci”, suggerì, la voce. Lo stavo facendo, stavo quasi impazzendo per ricordare quel tipo di tono. Più ci provavo, più impazzivo.
“Ti sei dimenticata di me?”, disse con voce seducente.
“Lurido, bastardo! Esci fuori!”, urlai.
“Vedo, che non hai perso la memoria”, disse con tono calmo e vellutato.
“Dov’è, Ilary?”, dissi imbestialita. Non sapevo dove guardare. La notte rendeva tutto ancora più tetro.
“Una cosa alla volta”, il suo tono di voce, mi invitava a restare quieta. Non servì a molto.
“No! La voglio. Qui! E adesso!”. Se solo l’avessi visto. Avrei giurato di ucciderlo.
“Facciamo le cose con calma. Non ti ho detto ancora, del perché sono qui”, si giustificò.
“Allora. Esci allo scoperto!”. Non l’avevo mai visto ed ero curiosa del sapere come era fatto: Dan Stevenson.
Dalla parte destra, come avevo intuito, emerse dall’ombra degli alberi con passo tranquillo. Braccia lungo i fianchi, blue jeans, maglia blu, camicia a quadrati bianchi con le righe azzurre. Capelli biondi, corti. Occhi azzurri.
Questo, era Dan Stevenson? Me lo aspettavo diverso. Nascosi la mia insoddisfazione.
“Mi avevi già dato al caccia, un po’ di tempo fa. Come vedi, sono ancora qua”, volevo vedere la sua reazione.
“Qualche anno fa, non ti volevo morta. Semplicemente, mi interessava com’eri cresciuta”, mi sorprendeva. Gesticolava in modo strano.
“Penso, suppongo che oggi vorrai: uccidermi”, non pensavo che mi avesse dato la caccia, per niente.
“Non proprio, così. Possiamo dire di si”, mi guardò dritto negli occhi. Alla prima occhiata, non mi sembrava pericoloso, come dicevano i miei genitori. Forse mi sbagliavo.
“Però, prima. Voglio vedere, Ilary”, almeno sapere che era viva mi rassicurava.
“Tu sai perché ti voglio, uccidere. Vero?”, con tono calmo quasi melodioso mi perse la domanda.
“Si”.
“Bene”, face dieci secondi di pausa. Lo interruppi, “Perché? Che senso, ha?”. Mi guardò, “Devo, farlo. E’ inevitabile. Accadrebbe il peggio se non lo facessi”, tentò di giustificarsi. A me pareva un malato mentale. Secondo lui, il mio destino sarebbe di morire per causa sua e accadrebbe il peggio se non lo facesse? Che ragionamenti, erano?
“Questo l’avevo capito da me”, mentii alla grande, “Adesso voglio vedere Ilary, subito!”.
“Però devo avvertirti che non sarà una bella cosa”, intervenni, “Che cosa le hai fatto!”, volevo aggiungere un’altra parola.
“Niente, solo una piccola modifica”, questo vampiro non aveva tutte le rotelle al proprio posto. Era pazzo.
“Brutto, figlio di puttana! Fammela vedere o giuro che ti ammazzo!”, sfogai tutta la mia collera. Non batté ciglio, alle mie parole. Si girò verso la foresta e fece cenno a qualcuno di venire.
Un’ombra poco più alta di lui avanzò. La riconobbi subito.
Occhi rossi, profondi, come il sangue. Pelle bianca come la luna. Labbra rosse che scoprirono i denti bianchi e scintillanti, perfetti. Appuntiti e affilati come coltelli.
Un paio di blue jeans, una maglia rosso con sopra una canotta blu, una cerniera che arrivava fino al petto. Al collo una colla in oro e argento che le arrivava all’inizio della cerniera.
I suoi capelli erano sciolti.
Guardarla, mi metteva i brividi. Il suo sguardo mi trapassava, non riuscivo a sostenerlo. Con i suoi denti affilati, pronti ad affondarli nella carne fresca di qualsiasi persona umana e non, che gli si fosse presentata davanti. L’immagine perfetta della morte, ecco cosa era diventata. Non aspettava altra che uccidere la sua preda e non avrebbe fatto sconti a nessuno, neanche a me.
Braccia e gambe erano pronte a scattare in qualsiasi momento, lei avesse voluto.
La sua sete di sangue le si leggeva in faccia, ma non credevo che avrebbe voluto bere sangue di una meticcia come me. Nata di un licantropo e un vampiro/umano.
Gettò un ringhio, di sfida a cui provai un tremore improvviso e fugace.
Di nuovo i suoi denti brillarono alla luce fioca della luna. Che cosa dovevo fare? Attaccarla, respingerla, ucciderla? Di sicuro lei avrebbe attaccato e mi avrebbe sicuramente ucciso, senza tanti problemi. A un vampiro non ci vogliono tanti ragionamenti per decidere. Neanche io, avevo tempo per decidere.
Scarta subito l’idea di ucciderla, era la mia migliore amica e non potevo porre fine alla sua vita. Non era il mio compito. Se Dan, l’aveva trasformata aveva i suoi buoni motivi. Quali motivi! Quello era un pazzo furioso e andava eliminato all’istante.
Lei non era pienamente consapevole di quello che faceva, gli si leggeva negli occhi. Traspariva l’insicurezza, l’indecisione, ma anche la sete. Un mix letale, per dirla in breve.
Non avevo intenzione di attaccarla, anche nel caso mi avrebbe attaccato mi sarei difesa. Senza farle del male.
 
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Altair47T
view post Posted on 24/9/2012, 20:23




L'ho trovato davvero interessante nonostante la completa assenza di trasformazioni
smaciulli 1 km di bosco e ovviamente l'adrenalina si stà in disparte dicendo "Io penso solo a evitare di farti sentire il dolore" ... la trasformazione è un optional...
ormai che hai cominciato finisci. Lo sò, è brutto vedere che poca gente risponde per darti qualche dritta qualche bel commento o altro però dai finisci per noi (me e lupetta, in pratica)
 
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-lupetta-
view post Posted on 26/9/2012, 01:37




mi domandavo anch'io che fine avesse fatto il continuo :D
 
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view post Posted on 26/9/2012, 11:07

Il Dottore Magistrale del Caos

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CITAZIONE (Altair47T @ 24/9/2012, 21:23) 
ormai che hai cominciato finisci. Lo sò, è brutto vedere che poca gente risponde per darti qualche dritta qualche bel commento o altro però dai finisci per noi (me e lupetta, in pratica)

La gente non risponde mai, ma credo legga bene o male (come faccio io). Vi consiglio di mandarle comunque un MP perché dubito che sia tornata di recente sul forum a leggere.

Visto che sono qui ne approfitto per dare il mio giudizio (inutile xD). La storia non è male, ma devi rileggere un paio di volte il tutto e correggere eventuali errori di grammatica e di battitura ;)
 
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RedEyes97
view post Posted on 31/3/2016, 11:38




Belliiiiissimoooo dovresti scrivere un libroo 👍👍👍👍👍👍👍👍👍👍👍👍👍🙏🙏🙏🙏🙏🙏🙏
 
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.Soul.
view post Posted on 7/12/2016, 02:24




Commovente *-*
 
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14 replies since 14/6/2012, 14:28   6501 views
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